(articolo apparso su Prima Pagina dell'8 giugno 2014)
Nel corso del Cinquecento viene elaborato il concetto di
civiltà come prerogativa dell'Europa, in contrapposizione con tutto ciò che, essendo
estraneo al vecchio continente, appare barbaro e selvaggio. Ma in cosa
consiste, di preciso, la civiltà europea? A parere di Botero (non a caso un
italiano) l'incivilimento richiede il passaggio dall'idolatria alla religione,
lo sviluppo agricolo e industriale, la promulgazione di leggi certe e, sopra
ogni cosa, lo sviluppo delle città, in ideale continuità con l'esperienza
urbana dell'antichità (a partire dalle poleis
greche) e comunale del Medioevo. Come rileva infatti Federico Chabod, «proprio
col divenire a loro volta, costruttori di città, da nomadi che erano, i Germani
avevano dimostrato il loro incivilirsi».
Anche gli scrittori francesi giungono grosso modo alle
stesse conclusioni di Botero: quella che esce dalla loro penna è un'Europa che
mostra vitalità economica, politica, religiosa e, soprattutto, culturale;
un'Europa che può vantare i valori collettivi della cortesia, dell'umanità (nel
senso della humanitas rinascimentale)
e dell'onestà e che offre la possibilità di vivere attivamente in società. Pur
con tutti i suoi difetti (le guerre, l'avidità di potere, la divisione delle
classi), la civiltà è l'Europa: e, in termini di progresso, non potrebbe essere
altrimenti. Solo la Cina (dal momento che quelle di America ed Africa
sono universalmente considerate società primitive) tiene testa all'Europa in
quanto a civiltà: essa ha arte, cultura e progresso scientifico, tanto che, da
Botero a Montaigne a Francesco Carletti (mercante fiorentino autore dei Ragionamenti
del mio viaggio intorno al mondo), è descritta come fosse uno Sato del
vecchio continente. Il che porta il nostro discorso a un'importante
conclusione: il Cinquecento non riesce ad elaborare una definizione di Europa
che vada oltre la dicotomia civile-selvaggio.
Bisogna attendere il Seicento e il Settecento perché lo
stallo venga superato. Un primo passo, in questa direzione, è la valorizzazione
di altre culture extra-europee, come l'Egitto (culla della civiltà) e l'Arabia
(lodata per la tolleranza in campo religioso). Valorizzazione che contiene, in nuce, un nuovo elemento che si
aggiunge alla mai sopita polemica antieuropea: la critica, destinata diventare
feroce condanna con gli illuministi, del fanatismo religioso (causa, non meno
della politica, di sanguinose guerre) del vecchio continente.
Al riguardo è significativo che in quegli anni fiorisca il nuovo genere
letterario degli pseudo-viaggi: di solito si tratta di raccolte di lettere che
l'autore finge siano scritte da un non europeo in viaggio per l'Europa, nelle
quali le critiche a usanze e costumi si fanno radicali. E ciò che da esse
emerge è una rivoluzionaria idea d'Europa, incentrata non più sul principio
della superiorità, bensì su quello, assai meno presuntuoso, della diversità.
Il successo della letteratura dei
viaggi immaginari è dovuto in gran parte al fatto che essa annovera un
capolavoro assoluto come le Lettres persanes di Montesquieu. L'opera è
una fitta corrispondenza tra due visitatori persiani in viaggio nel vecchio
continente e diversi amici e conoscenti in Oriente. Dallo scambio di opinioni
emergono le profonde differenze che distinguono l'Europa dal resto del mondo.
Innanzitutto la politica: riprendendo Machiavelli, Montesquieu propone la
duplice equazione Europa = molti Stati, ciascuno impossibilitato ad esercitare
un potere assoluto e Asia = pochi Stati retti da sovrani con poteri illimitati.
Con tutta evidenza, lo scrittore francese ha in mente il concetto di libertà (e
non a caso i due viaggiatori persiani restano colpiti dall'esistenza, in
Europa, di repubbliche): ma la sua concezione di libertà si discosta ormai
nettamente da quella dell'autore del Principe, teorico della ragion di
Stato quale supremo valore civico cui è doveroso subordinare la vita e le
esigenze dei singoli; quella di Montesquieu è una libertà contro lo Stato, intesa come tutela dei diritti dell'individuo
rispetto all'invadenza e alla forza coercitiva del governo centrale. Un
esempio, in tal senso, è quello della giustizia: l'Europa non è infatti solo
libertà contrapposta al dispotismo. Nelle Lettres persanes il vecchio
continente è anche il luogo dell'equità, dove, rispetto all'Oriente, si
applicano pene miti, al punto che – scrive Chabod – «otto giorni di prigione e
una leggera multa colpiscono lo spirito di un Europeo [...] tanto quanto la
perdita di un braccio intimidisce un Asiatico».
Fin qui, dunque, solo aspetti
positivi: ma, prosegue Montesquieu, Europa è anche – siamo alle solite –
sinonimo di guerra e prevaricazione. Per lo scrittore francese è giunta però
l'ora di guardare in faccia la realtà: è la ragion di Stato (la stessa tanto
lodata dal Machiavelli) la vera causa del male che affligge l'Europa. A cagione
della sete di potere il diritto pubblico è continuamente violato per interessi
di parte; le leggi sono ovunque sopraffatte dalla corruzione. Se quindi la
superiorità europea è indiscutibile a livello di principi teorici, il vero
problema è rappresentato dai diffusi difetti di applicazione di tali principi.
Affermare cioè, come già aveva fatto Erodoto, che il solo autentico sovrano è
la legge rischia di risultare completamente inutile se il sovrano non riesce a
farsi rispettare (in primis, s'intende, dai governanti).
Proseguendo nella lettura delle Lettres,
si passa poi al capitolo – senz'altro il più originale – sui costumi. A colpire
i due visitatori persiani sono il brio e la gaiezza degli europei (evidenti in
particolare per quanto concerne il rapporto con le donne), contrapposti alla
«gravità» orientale. Da una parte, quindi, una marcata socievolezza; dall'altra
l'isolamento e un esasperato pudore. Ma non solo: tipicamente europea è quella
che Montesquieu definisce «passione per il lavoro», un'alacrità che non manca
di raggiungere eccessi al limite del paradossale («Voi vedete a Parigi – si
legge in una lettera – un uomo che ha abbastanza da vivere fino al giorno del
giudizio e che pure lavora senza posa, e rischia di accorciare i suoi giorni
per accumulare, dice egli, di che vivere»). Il che, però, non implica affatto
un giudizio negativo: la auri sacra fames degli europei è anzi degna di
elogio, poiché si traduce in voglia di fare, produrre e creare (ed è facile
scorgere in questa forma mentis gli incunaboli della società
capitalistica moderna).
Altra peculiarità dell'Europa sono la
scienza e la tecnica. Esse, rileva Montesquieu, sono senza dubbio sinonimo di
progresso, ma a patto – e qui ritorna il tema, già anticipato a proposito della
politica, dei difetti di applicazione – che non se ne faccia un cattivo uso. Rispetto
al passato, il passo è comunque molto importante: «Questa – sottolinea Chabod –
[...] è la maggior novità di fronte al "sentire" europeo del '500 il
quale si fondava soprattutto sul fattore religioso (cristianità), e culturale,
ma d'una cultura prettamente umanistica, cioè letterario-filosofica. Ora, a
siffatta cultura (les arts) s'aggiunge la cultura scientifica (les
sciences), la quale, anzi, andrà sempre più primeggiando». È la matematica,
in altre parole, ad affascinare l'uomo del Sei e Settecento, il quale viene
sedotto dalla prospettiva di poter conseguire, attraverso di essa, una verità
certa e assoluta. Studiosi del calibro di Galilei e Newton diventano quindi i
rappresentanti di un nuovo modo di concepire l'Europa: non più solo terra di
cultura governata da istituzioni avanzate, bensì, soprattutto, patria della
scienza e del progresso.
Ciò che invece Montesquieu considera, senza mezzi
termini, un aspetto fortemente negativo della società europea è la religione. E
qui non si tratta certo di una questione di difetti di applicazione: in questo
campo, l'opposizione dello scrittore francese è drastica. Come rileva infatti
Chabod, mentre nel Cinquecento «l'esser l'Europa cristiana era la prima delle
sue virtù di fronte alla non-Europa, ora avviene il contrario: se l'Europa –
che politicamente, culturalmente vale di più degli altri – ha una pecca, questa
è dovuta proprio al clero, al papismo, al fanatismo religioso, allo spirito
teologico che impaccia la scienza, e contraddice alla filosofia». Al riguardo,
le Lettres persanes sono categoriche,
a partire dall'amara constatazione che «non vi è mai stato regno in cui siano
successe tante guerre civili come nel regno di Cristo».
La conclusione di Montesquieu è che, in uno Stato, è
preferibile che convivano più religioni. Il vecchio continente, per come lo
vede lui, è infatti dilaniato dal cancro dell'intolleranza: un male, così
tipicamente cristiano, che rischia, se non curato, di divorare l'Europa
dall'interno. (Continua)
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica La nostra storia
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