martedì 10 giugno 2014

«Storia dell’idea d’Europa»: un grande classico della storiografia (terza parte)

(articolo apparso su Prima Pagina dell'8 giugno 2014)

Nel corso del Cinquecento viene elaborato il concetto di civiltà come prerogativa dell'Europa, in contrapposizione con tutto ciò che, essendo estraneo al vecchio continente, appare barbaro e selvaggio. Ma in cosa consiste, di preciso, la civiltà europea? A parere di Botero (non a caso un italiano) l'incivilimento richiede il passaggio dall'idolatria alla religione, lo sviluppo agricolo e industriale, la promulgazione di leggi certe e, sopra ogni cosa, lo sviluppo delle città, in ideale continuità con l'esperienza urbana dell'antichità (a partire dalle poleis greche) e comunale del Medioevo. Come rileva infatti Federico Chabod, «proprio col divenire a loro volta, costruttori di città, da nomadi che erano, i Germani avevano dimostrato il loro incivilirsi».
Anche gli scrittori francesi giungono grosso modo alle stesse conclusioni di Botero: quella che esce dalla loro penna è un'Europa che mostra vitalità economica, politica, religiosa e, soprattutto, culturale; un'Europa che può vantare i valori collettivi della cortesia, dell'umanità (nel senso della humanitas rinascimentale) e dell'onestà e che offre la possibilità di vivere attivamente in società. Pur con tutti i suoi difetti (le guerre, l'avidità di potere, la divisione delle classi), la civiltà è l'Europa: e, in termini di progresso, non potrebbe essere altrimenti. Solo la Cina (dal momento che quelle di America ed Africa sono universalmente considerate società primitive) tiene testa all'Europa in quanto a civiltà: essa ha arte, cultura e progresso scientifico, tanto che, da Botero a Montaigne a Francesco Carletti (mercante fiorentino autore dei Ragionamenti del mio viaggio intorno al mondo), è descritta come fosse uno Sato del vecchio continente. Il che porta il nostro discorso a un'importante conclusione: il Cinquecento non riesce ad elaborare una definizione di Europa che vada oltre la dicotomia civile-selvaggio.
Bisogna attendere il Seicento e il Settecento perché lo stallo venga superato. Un primo passo, in questa direzione, è la valorizzazione di altre culture extra-europee, come l'Egitto (culla della civiltà) e l'Arabia (lodata per la tolleranza in campo religioso). Valorizzazione che contiene, in nuce, un nuovo elemento che si aggiunge alla mai sopita polemica antieuropea: la critica, destinata diventare feroce condanna con gli illuministi, del fanatismo religioso (causa, non meno della politica, di sanguinose guerre) del vecchio continente. Al riguardo è significativo che in quegli anni fiorisca il nuovo genere letterario degli pseudo-viaggi: di solito si tratta di raccolte di lettere che l'autore finge siano scritte da un non europeo in viaggio per l'Europa, nelle quali le critiche a usanze e costumi si fanno radicali. E ciò che da esse emerge è una rivoluzionaria idea d'Europa, incentrata non più sul principio della superiorità, bensì su quello, assai meno presuntuoso, della diversità.
Il successo della letteratura dei viaggi immaginari è dovuto in gran parte al fatto che essa annovera un capolavoro assoluto come le Lettres persanes di Montesquieu. L'opera è una fitta corrispondenza tra due visitatori persiani in viaggio nel vecchio continente e diversi amici e conoscenti in Oriente. Dallo scambio di opinioni emergono le profonde differenze che distinguono l'Europa dal resto del mondo. Innanzitutto la politica: riprendendo Machiavelli, Montesquieu propone la duplice equazione Europa = molti Stati, ciascuno impossibilitato ad esercitare un potere assoluto e Asia = pochi Stati retti da sovrani con poteri illimitati. Con tutta evidenza, lo scrittore francese ha in mente il concetto di libertà (e non a caso i due viaggiatori persiani restano colpiti dall'esistenza, in Europa, di repubbliche): ma la sua concezione di libertà si discosta ormai nettamente da quella dell'autore del Principe, teorico della ragion di Stato quale supremo valore civico cui è doveroso subordinare la vita e le esigenze dei singoli; quella di Montesquieu è una libertà contro lo Stato, intesa come tutela dei diritti dell'individuo rispetto all'invadenza e alla forza coercitiva del governo centrale. Un esempio, in tal senso, è quello della giustizia: l'Europa non è infatti solo libertà contrapposta al dispotismo. Nelle Lettres persanes il vecchio continente è anche il luogo dell'equità, dove, rispetto all'Oriente, si applicano pene miti, al punto che – scrive Chabod – «otto giorni di prigione e una leggera multa colpiscono lo spirito di un Europeo [...] tanto quanto la perdita di un braccio intimidisce un Asiatico».
Fin qui, dunque, solo aspetti positivi: ma, prosegue Montesquieu, Europa è anche – siamo alle solite – sinonimo di guerra e prevaricazione. Per lo scrittore francese è giunta però l'ora di guardare in faccia la realtà: è la ragion di Stato (la stessa tanto lodata dal Machiavelli) la vera causa del male che affligge l'Europa. A cagione della sete di potere il diritto pubblico è continuamente violato per interessi di parte; le leggi sono ovunque sopraffatte dalla corruzione. Se quindi la superiorità europea è indiscutibile a livello di principi teorici, il vero problema è rappresentato dai diffusi difetti di applicazione di tali principi. Affermare cioè, come già aveva fatto Erodoto, che il solo autentico sovrano è la legge rischia di risultare completamente inutile se il sovrano non riesce a farsi rispettare (in primis, s'intende, dai governanti).
Proseguendo nella lettura delle Lettres, si passa poi al capitolo – senz'altro il più originale – sui costumi. A colpire i due visitatori persiani sono il brio e la gaiezza degli europei (evidenti in particolare per quanto concerne il rapporto con le donne), contrapposti alla «gravità» orientale. Da una parte, quindi, una marcata socievolezza; dall'altra l'isolamento e un esasperato pudore. Ma non solo: tipicamente europea è quella che Montesquieu definisce «passione per il lavoro», un'alacrità che non manca di raggiungere eccessi al limite del paradossale («Voi vedete a Parigi – si legge in una lettera – un uomo che ha abbastanza da vivere fino al giorno del giudizio e che pure lavora senza posa, e rischia di accorciare i suoi giorni per accumulare, dice egli, di che vivere»). Il che, però, non implica affatto un giudizio negativo: la auri sacra fames degli europei è anzi degna di elogio, poiché si traduce in voglia di fare, produrre e creare (ed è facile scorgere in questa forma mentis gli incunaboli della società capitalistica moderna).
Altra peculiarità dell'Europa sono la scienza e la tecnica. Esse, rileva Montesquieu, sono senza dubbio sinonimo di progresso, ma a patto – e qui ritorna il tema, già anticipato a proposito della politica, dei difetti di applicazione – che non se ne faccia un cattivo uso. Rispetto al passato, il passo è comunque molto importante: «Questa – sottolinea Chabod – [...] è la maggior novità di fronte al "sentire" europeo del '500 il quale si fondava soprattutto sul fattore religioso (cristianità), e culturale, ma d'una cultura prettamente umanistica, cioè letterario-filosofica. Ora, a siffatta cultura (les arts) s'aggiunge la cultura scientifica (les sciences), la quale, anzi, andrà sempre più primeggiando». È la matematica, in altre parole, ad affascinare l'uomo del Sei e Settecento, il quale viene sedotto dalla prospettiva di poter conseguire, attraverso di essa, una verità certa e assoluta. Studiosi del calibro di Galilei e Newton diventano quindi i rappresentanti di un nuovo modo di concepire l'Europa: non più solo terra di cultura governata da istituzioni avanzate, bensì, soprattutto, patria della scienza e del progresso.
Ciò che invece Montesquieu considera, senza mezzi termini, un aspetto fortemente negativo della società europea è la religione. E qui non si tratta certo di una questione di difetti di applicazione: in questo campo, l'opposizione dello scrittore francese è drastica. Come rileva infatti Chabod, mentre nel Cinquecento «l'esser l'Europa cristiana era la prima delle sue virtù di fronte alla non-Europa, ora avviene il contrario: se l'Europa – che politicamente, culturalmente vale di più degli altri – ha una pecca, questa è dovuta proprio al clero, al papismo, al fanatismo religioso, allo spirito teologico che impaccia la scienza, e contraddice alla filosofia». Al riguardo, le Lettres persanes sono categoriche, a partire dall'amara constatazione che «non vi è mai stato regno in cui siano successe tante guerre civili come nel regno di Cristo».
La conclusione di Montesquieu è che, in uno Stato, è preferibile che convivano più religioni. Il vecchio continente, per come lo vede lui, è infatti dilaniato dal cancro dell'intolleranza: un male, così tipicamente cristiano, che rischia, se non curato, di divorare l'Europa dall'interno. (Continua)

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