(articolo apparso su Prima Pagina del 22 giugno 2014)
Nel tardo Settecento, a contrastare il dilagante
europeismo illuminista, fa la sua comparsa il concetto di nazione. Con esso –
precisa Federico Chabod – deve intendersi la coscienza di un popolo, ovvero la
«volontà di essere nazione, come programma, non la nazione come fatto
etnico-linguistico, già da secoli operante». Ed è evidente che il bisogno di
affermare se stessa implichi, per la nazione, la negazione di quel
cosmopolitismo che, soffocando il senso di patria, di fatto legittima il
dominio del più forte. Come scrive l'Alfieri nel Misogallo, il patriottismo deve necessariamente fondarsi sugli odi
nazionali.
Tuttavia, nemmeno le rivendicazioni dei singoli popoli
che la compongono riescono a cancellare il diffuso sentimento di appartenenza
alla più vasta comunità europea: cultura, usi e costumi del vecchio continente
sono cioè avvertiti come elementi unificanti anche a dispetto delle differenze
nazionali. Edmund Burke, ad esempio, li prende a pretesto per esprimere il
proprio rimpianto per l'Europa pre-rivoluzionaria, «una per consuetudini sociali
e forma di vita», sottolinea Chabod. Mentre Novalis, proprio perché nel
presente la giudica in pericolo, elogia la passata unità del vecchio
continente, un tempo garantita dall'esistenza di una sola, compatta cristianità.
A suo parere le responsabilità della disgregazione dell'Europa sono da
ricondurre al fulmineo sviluppo delle scienze (a causa del quale l'uomo ha
sacrificato i valori spirituali sull'altare del progresso) e al devastante
impatto della Riforma: con la frattura della cristianità ha avuto inizio
l'Europa delle guerre e dei filosofi, con il conseguente declino della
religione.
Ciò che da queste riflessioni traspare con tutta evidenza
è dunque una prima rivalutazione del Medioevo, che
sarà poi tipica del Romanticismo. Quella che per
Voltaire era un'epoca di decadenza (soprattutto culturale), diviene pertanto
nel primo Ottocento un'età contrassegnata da elevata e profonda spiritualità.
In quest'ottica, tanto il mito della nazione quanto quello dell'Europa riacquistano
vigore sorreggendosi a vicenda sulla base del comune riferimento al principio
dell'unità. Unità religiosa e culturale del vecchio continente (e per certi
versi – basti pensare alla nostalgia di un Metternich o di un Castlereagh per
l'equilibrio pre-rivoluzionario – anche politica); unità d'intenti per le
comunità nazionali in via di formazione o di consolidamento. È soprattutto
Giuseppe Mazzini l'artefice della conciliazione tra europeismo e nazionalismo.
La patria, egli scrive, «è il punto d'appoggio della leva che si libra tra
l'individuo e l'Umanità» (e con «umanità» intende essenzialmente l'Europa). A
suo parere ogni nazione è stata investita da Dio di una missione, e «l'insieme
di tutte quelle missioni compiute in bella e santa armonia pel bene comune,
rappresenterà un giorno la patria di tutti, la Patria delle Patrie, l'Umanità».
Mazzini pensa soprattutto alla missione civilizzatrice della Terza Italia; ma
già prima di lui De Maistre e Schiller avevano elaborato la stessa idea in
riferimento, rispettivamente, alla Francia e al popolo tedesco.
Questa nuova impostazione ideologica ha
un'importante conseguenza: ovvero che i caratteri che contraddistinguono
l'Europa si storicizzano, vengono cioè esaminati nel loro divenire e non, come
accaduto nel Settecento, solo in funzione degli sviluppi nel presente. Essere
europei, nella coscienza collettiva, significa pertanto avere ereditato una
precisa cultura. Cultura – ed è questo un fondamentale ed innovativo elemento del
pensiero ottocentesco – che è unitaria, ma allo stesso tempo rappresenta la
somma (o, meglio, la fusione) di molteplici contributi nazionali. Scrive in
quegli anni il grande storico francese François Guizot: «Se essa [la civiltà
europea] è unitaria, la sua varietà non è meno prodigiosa; essa non si è
sviluppata tutta intera in nessun paese singolo. I lineamenti della sua
fisionomia sono sparsi». Il che significa, citando questa volta Chabod, che «se
il punto di arrivo è [...] unitario, e tende un po' a fare scomparire le
diversità nazionali nel complesso comune, lo svolgimento storico che a tale
punto di arrivo ha condotto è invece un'esaltazione della varietà nell'unità».
Ora, affinché più contributi
concorrano a formare un unico collettivo è necessario che i singoli popoli
collaborino in piena libertà, mettendo in comune i frutti delle diverse culture
nazionali. Guizot è molto chiaro su questo punto: mentre le civiltà antiche
erano caratterizzate da uniformità (e la lotta tra due principi poteva
concludersi solo con il trionfo esclusivo di uno dei due), l'Europa moderna è
estremamente varia (nelle forme statali, nelle idee, nell'arte); per questo
essa «è la madre della libertà: che significa impossibilità per una sola forza
di soffocare le altre: non potendo determinarsi, i principi diversi hanno
dovuto vivere assieme, venire a transazione, accontentarsi ciascuno solo di una
parte di dominio: la libertà è stata così il risultato della varietà degli
elementi della civiltà europea».
Il tratto caratteristico della
riflessione di Guizot è pertanto l'inedito accostamento della civiltà classica
greco-romana a quella orientale, motivato dalla convinzione che entrambe siano
accomunate dall'impossibilità di trovare un punto d'incontro tra principi
contrapposti. Come rileva Chabod, «la separazione non è più soltanto tra Asia,
antica e moderna, ed Europa; bensì tra Asia più mondo antico, anche
greco-romano, ed Europa moderna»; con la conseguenza, inevitabile, che il
Medioevo non è più una parentesi di barbarie tra due età di splendore
culturale, bensì l'epoca in cui sono state gettate le basi della civiltà
europea. Qui la frattura tra Illuminismo e Romanticismo non potrebbe essere più
netta: il mito delle poleis ha ceduto il passo a quello dei comuni
medievali (i veri padri delle libertà moderne); mentre la denuncia
dell'oscurantismo è stata rimpiazzata dalla rivalutazione del sentimento
religioso e del comune denominatore cristiano.
L'Europa degli scrittori
ottocenteschi è dunque un'Europa cristiana e libera, risultato dell'apporto delle
singole comunità nazionali. Questa concezione ha però un punto debole: ed è che
il concetto di missione – per il quale, come si è visto, ogni nazione ha un
ruolo e uno scopo – tende quasi sempre a tramutarsi in quello di primato. Ogni
nazione, in sostanza, rivendica il diritto a guidare le altre, a partire da una
pretesa superiorità, che può essere politica, morale o culturale. La tendenza è
universalmente diffusa: lo stesso Guizot, un po' come Mazzini e Gioberti per
l'Italia, teorizza il primato indiscusso della Francia («Non vi è quasi nessuna
idea, nessun grande principio di civiltà che, per diffondersi ovunque, non sia
anzitutto passato attraverso la Francia»). Il rischio, scrive Chabod, è che «a
forza di insistere sui titoli di merito di una nazione singola, tutta la
grandezza della civiltà comune [finisca] col concentrarsi in quella sola
nazione, senza più bisogno dunque della collaborazione delle altre». Ma si
tratta, comunque, di un rischio che va calcolato, poiché è proprio la vivacità
(contrapposta all'immobilità orientale) il tratto distintivo dell'Europa, tanto
a livello politico, quanto a livello sociale (con la contrapposizione tra le
classi).
Tre dunque sono le novità del
pensiero di Guizot. Per prima cosa, l'idea che sia proprio l'immobilità della
società la premessa della tirannide (e non, come voleva Montesquieu, il
contrario). Secondo: in Europa il potere cerca un principio di legittimità che
non può essere la forza. Infine, Guizot suggerisce un parallelismo tra storia
religiosa e storia politica, sulla base del comune percorso in direzione di
forme sempre più mature di libertà. Con tutta evidenza, il riferimento è in
questo caso alla Riforma e alla Rivoluzione francese, con l'importante
precisazione che «la società religiosa ha sempre marciato per prima» rispetto a
quella politica. Siamo quindi agli antipodi rispetto a Novalis (cattolico), che
individua nella nascita del protestantesimo l'inizio di un periodo di decadenza:
per Guizot (calvinista), con la Riforma l'Europa entra nella modernità, «perché
allora – scrive Chabod – trionfa il principio del libero esame, cioè la libertà
dello spirito umano». La conseguenza di questa premessa è che l'Europa moderna
è figlia dell'ottimismo settecentesco: un ottimismo che, a dispetto di qualche
increspatura di superficie, è intrinsecamente cristiano (giacché il
cristianesimo è la religione che più di tutte investe sull'idea di futuro come
tempo della salvezza, mentre il presente è il tempo della ricerca e dell'espiazione),
e presuppone l'affermazione di un senso di superiorità sulle altre civiltà.
Ancora oggi, conclude Chabod, dire Europa equivale a professare «fiducia piena
nell'avvenire, che dovrà vedere ulteriori progressi e nuovi splendori».
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