sabato 28 giugno 2014

«Storia dell’idea d’Europa»: un grande classico della storiografia (quinta parte)

(articolo apparso su Prima Pagina del 22 giugno 2014)

Nel tardo Settecento, a contrastare il dilagante europeismo illuminista, fa la sua comparsa il concetto di nazione. Con esso – precisa Federico Chabod – deve intendersi la coscienza di un popolo, ovvero la «volontà di essere nazione, come programma, non la nazione come fatto etnico-linguistico, già da secoli operante». Ed è evidente che il bisogno di affermare se stessa implichi, per la nazione, la negazione di quel cosmopolitismo che, soffocando il senso di patria, di fatto legittima il dominio del più forte. Come scrive l'Alfieri nel Misogallo, il patriottismo deve necessariamente fondarsi sugli odi nazionali.
Tuttavia, nemmeno le rivendicazioni dei singoli popoli che la compongono riescono a cancellare il diffuso sentimento di appartenenza alla più vasta comunità europea: cultura, usi e costumi del vecchio continente sono cioè avvertiti come elementi unificanti anche a dispetto delle differenze nazionali. Edmund Burke, ad esempio, li prende a pretesto per esprimere il proprio rimpianto per l'Europa pre-rivoluzionaria, «una per consuetudini sociali e forma di vita», sottolinea Chabod. Mentre Novalis, proprio perché nel presente la giudica in pericolo, elogia la passata unità del vecchio continente, un tempo garantita dall'esistenza di una sola, compatta cristianità. A suo parere le responsabilità della disgregazione dell'Europa sono da ricondurre al fulmineo sviluppo delle scienze (a causa del quale l'uomo ha sacrificato i valori spirituali sull'altare del progresso) e al devastante impatto della Riforma: con la frattura della cristianità ha avuto inizio l'Europa delle guerre e dei filosofi, con il conseguente declino della religione.
Ciò che da queste riflessioni traspare con tutta evidenza è dunque una prima rivalutazione del Medioevo, che sarà poi tipica del Romanticismo. Quella che per Voltaire era un'epoca di decadenza (soprattutto culturale), diviene pertanto nel primo Ottocento un'età contrassegnata da elevata e profonda spiritualità. In quest'ottica, tanto il mito della nazione quanto quello dell'Europa riacquistano vigore sorreggendosi a vicenda sulla base del comune riferimento al principio dell'unità. Unità religiosa e culturale del vecchio continente (e per certi versi – basti pensare alla nostalgia di un Metternich o di un Castlereagh per l'equilibrio pre-rivoluzionario – anche politica); unità d'intenti per le comunità nazionali in via di formazione o di consolidamento. È soprattutto Giuseppe Mazzini l'artefice della conciliazione tra europeismo e nazionalismo. La patria, egli scrive, «è il punto d'appoggio della leva che si libra tra l'individuo e l'Umanità» (e con «umanità» intende essenzialmente l'Europa). A suo parere ogni nazione è stata investita da Dio di una missione, e «l'insieme di tutte quelle missioni compiute in bella e santa armonia pel bene comune, rappresenterà un giorno la patria di tutti, la Patria delle Patrie, l'Umanità». Mazzini pensa soprattutto alla missione civilizzatrice della Terza Italia; ma già prima di lui De Maistre e Schiller avevano elaborato la stessa idea in riferimento, rispettivamente, alla Francia e al popolo tedesco.
 Questa nuova impostazione ideologica ha un'importante conseguenza: ovvero che i caratteri che contraddistinguono l'Europa si storicizzano, vengono cioè esaminati nel loro divenire e non, come accaduto nel Settecento, solo in funzione degli sviluppi nel presente. Essere europei, nella coscienza collettiva, significa pertanto avere ereditato una precisa cultura. Cultura – ed è questo un fondamentale ed innovativo elemento del pensiero ottocentesco – che è unitaria, ma allo stesso tempo rappresenta la somma (o, meglio, la fusione) di molteplici contributi nazionali. Scrive in quegli anni il grande storico francese François Guizot: «Se essa [la civiltà europea] è unitaria, la sua varietà non è meno prodigiosa; essa non si è sviluppata tutta intera in nessun paese singolo. I lineamenti della sua fisionomia sono sparsi». Il che significa, citando questa volta Chabod, che «se il punto di arrivo è [...] unitario, e tende un po' a fare scomparire le diversità nazionali nel complesso comune, lo svolgimento storico che a tale punto di arrivo ha condotto è invece un'esaltazione della varietà nell'unità».
Ora, affinché più contributi concorrano a formare un unico collettivo è necessario che i singoli popoli collaborino in piena libertà, mettendo in comune i frutti delle diverse culture nazionali. Guizot è molto chiaro su questo punto: mentre le civiltà antiche erano caratterizzate da uniformità (e la lotta tra due principi poteva concludersi solo con il trionfo esclusivo di uno dei due), l'Europa moderna è estremamente varia (nelle forme statali, nelle idee, nell'arte); per questo essa «è la madre della libertà: che significa impossibilità per una sola forza di soffocare le altre: non potendo determinarsi, i principi diversi hanno dovuto vivere assieme, venire a transazione, accontentarsi ciascuno solo di una parte di dominio: la libertà è stata così il risultato della varietà degli elementi della civiltà europea».
Il tratto caratteristico della riflessione di Guizot è pertanto l'inedito accostamento della civiltà classica greco-romana a quella orientale, motivato dalla convinzione che entrambe siano accomunate dall'impossibilità di trovare un punto d'incontro tra principi contrapposti. Come rileva Chabod, «la separazione non è più soltanto tra Asia, antica e moderna, ed Europa; bensì tra Asia più mondo antico, anche greco-romano, ed Europa moderna»; con la conseguenza, inevitabile, che il Medioevo non è più una parentesi di barbarie tra due età di splendore culturale, bensì l'epoca in cui sono state gettate le basi della civiltà europea. Qui la frattura tra Illuminismo e Romanticismo non potrebbe essere più netta: il mito delle poleis ha ceduto il passo a quello dei comuni medievali (i veri padri delle libertà moderne); mentre la denuncia dell'oscurantismo è stata rimpiazzata dalla rivalutazione del sentimento religioso e del comune denominatore cristiano.
L'Europa degli scrittori ottocenteschi è dunque un'Europa cristiana e libera, risultato dell'apporto delle singole comunità nazionali. Questa concezione ha però un punto debole: ed è che il concetto di missione – per il quale, come si è visto, ogni nazione ha un ruolo e uno scopo – tende quasi sempre a tramutarsi in quello di primato. Ogni nazione, in sostanza, rivendica il diritto a guidare le altre, a partire da una pretesa superiorità, che può essere politica, morale o culturale. La tendenza è universalmente diffusa: lo stesso Guizot, un po' come Mazzini e Gioberti per l'Italia, teorizza il primato indiscusso della Francia («Non vi è quasi nessuna idea, nessun grande principio di civiltà che, per diffondersi ovunque, non sia anzitutto passato attraverso la Francia»). Il rischio, scrive Chabod, è che «a forza di insistere sui titoli di merito di una nazione singola, tutta la grandezza della civiltà comune [finisca] col concentrarsi in quella sola nazione, senza più bisogno dunque della collaborazione delle altre». Ma si tratta, comunque, di un rischio che va calcolato, poiché è proprio la vivacità (contrapposta all'immobilità orientale) il tratto distintivo dell'Europa, tanto a livello politico, quanto a livello sociale (con la contrapposizione tra le classi).
Tre dunque sono le novità del pensiero di Guizot. Per prima cosa, l'idea che sia proprio l'immobilità della società la premessa della tirannide (e non, come voleva Montesquieu, il contrario). Secondo: in Europa il potere cerca un principio di legittimità che non può essere la forza. Infine, Guizot suggerisce un parallelismo tra storia religiosa e storia politica, sulla base del comune percorso in direzione di forme sempre più mature di libertà. Con tutta evidenza, il riferimento è in questo caso alla Riforma e alla Rivoluzione francese, con l'importante precisazione che «la società religiosa ha sempre marciato per prima» rispetto a quella politica. Siamo quindi agli antipodi rispetto a Novalis (cattolico), che individua nella nascita del protestantesimo l'inizio di un periodo di decadenza: per Guizot (calvinista), con la Riforma l'Europa entra nella modernità, «perché allora – scrive Chabod – trionfa il principio del libero esame, cioè la libertà dello spirito umano». La conseguenza di questa premessa è che l'Europa moderna è figlia dell'ottimismo settecentesco: un ottimismo che, a dispetto di qualche increspatura di superficie, è intrinsecamente cristiano (giacché il cristianesimo è la religione che più di tutte investe sull'idea di futuro come tempo della salvezza, mentre il presente è il tempo della ricerca e dell'espiazione), e presuppone l'affermazione di un senso di superiorità sulle altre civiltà. Ancora oggi, conclude Chabod, dire Europa equivale a professare «fiducia piena nell'avvenire, che dovrà vedere ulteriori progressi e nuovi splendori».

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mercoledì 18 giugno 2014

«Storia dell’idea d’Europa»: un grande classico della storiografia (quarta parte)

(articolo apparso su Prima Pagina del 15 giugno 2014)

Ventisette anni dopo le Lettres persanes (nel 1748), l'Europa torna al centro della riflessione di Montesquieu nelle pagine di quella che è senza dubbio la sua opera più celebre: l'Esprit des lois. Rispetto agli scritti della giovinezza, qui il concetto di Europa si storicizza, a partire sempre dal principio cardine del vecchio continente terra di libertà politica sin dalle prime esperienze delle poleis e della Roma repubblicana. Ma la libertà, per Montesquieu, non è una prerogativa della sola civiltà classica: anzi, i veri precursori della monarchia costituzionale – la forma di governo che lo scrittore francese predilige, dal momento che il potere del sovrano è limitato dalla nobiltà e dalle leggi fondamentali – sono i Germani, per i quali il re è un primus inter pares, non un despota.
L'opera di Montesquieu va inserita entro il contesto della lunga querelle sull'origine della monarchia francese, la quale vede contrapposti due schieramenti: quello facente capo al conte di Boulainvilliers – per il quale l'antica libertà franco-germanica aveva subito nei secoli ripetuti attacchi da parte di un potere monarchico desideroso di farsi assoluto –; e quello dell'abate Du Bos, caposcuola della corrente cosiddetta «romanistica» secondo la quale la libertà germanica, per divenire autentica, aveva dovuto subire l'influenza latina. L'Esprit des lois recupera pertanto alcuni elementi di questa polemica: in particolare, l'opera guarda con ammirazione al Medioevo, epoca di compiuta maturazione della libertà politica. Ma non solo. L'aspetto forse più interessante dello scritto di Montesquieu è la rivalutazione, rispetto alle Lettres persanes, del cristianesimo, ora ritenuto la religione che, tra tutte, meglio si concilia con le forme di governo temperato (mentre il musulmanesimo e i riti cinesi si accordano preferibilmente con il dispotismo orientale).
Come sottolinea Federico Chabod, si coglie in questa inedita valorizzazione del Medioevo e del cristianesimo una profonda spaccatura tra il pensiero di Montesquieu e quello di Voltaire: «Il primo muove da un interesse "politico"; antiassolutista e perciò [...] preso da ammirazione per l'antica libertà germanica, si volge ad un certo punto con simpatia verso quel Medioevo, che era stato [...] il periodo in cui quella libertà aveva prosperato. Il secondo muove da interessi essenzialmente "culturali": e perciò, già avverso a quel Medioevo che per lui rappresenta [...] il "deserto" nella storia della cultura e della intelligenza, da questo suo disprezzo per il "gotico", l'età dei monaci e della barbarie culturale, vede rinfocolato ancor più il suo continuo, fremente anticlericalismo, anzi anticristianesimo».
Quello che però più interessa in questa sede è la rivalutazione, nell'Esprit des lois, dell'Europa, terra in cui convivono molti piccoli Stati (il che è garanzia di libertà, giacché «un grande impero presuppone un'autorità dispotica»), dediti a proficui scambi commerciali e uniti sotto il profilo culturale. Per il Montesquieu maturo è evidente che «la storia non offre nulla che possa essere paragonato al grado di potenza a cui l'Europa è pervenuta». Il che, in altre parole, significa professare massima fiducia nel futuro e nel progresso (prerogativa del vecchio continente), nella convinzione che mentre gli antichi «scrivevano sulla sabbia, noi scriviamo sul bronzo».
Anche Voltaire, seppur da una diversa prospettiva, è profondamente europeista. Certo, egli sarà sempre ricordato per il suo cosmopolitismo (e per le sue lodi ai popoli dell'India – cui gli occidentali devono molte invenzioni – e della Cina – espressione di una civiltà precocissima, caratterizzata da un'elevata moralità, che forse non ha eguali nel mondo); ma è del tutto evidente che gli elogi delle antiche civiltà orientali sono strumentali per muovere severe critiche alla religione (fanatica e intollerante) e alla prassi politica del vecchio continente. Come già in Montesquieu, si tratta in un certo senso della consueta questione dei difetti di applicazione, anche se in Voltaire – che sostituirebbe la religione con un'etica costituita essenzialmente da precise «norme di vita» – l'avversione nei confronti del cristianesimo è drastica. Ciò che però nemmeno l'autore del Candido si sogna di mettere in discussione è la netta superiorità europea nel campo scientifico e culturale: il punto, a suo parere, è che pur essendo stati i precursori in quasi tutti i rami del sapere, i popoli orientali (in particolare la Cina) si sono fermati in quanto a progresso, e sono stati nettamente sopravanzati dagli abitanti del vecchio continente. Le ragioni di questo ritardo sono sostanzialmente due: il forte attaccamento alla tradizione e la natura arcaica di un linguaggio che non è stato capace di adottare l'alfabeto in luogo della scrittura simbolica.
Quindi, ancora una volta, Europa è sinonimo di scienza e progresso. Ma, ed è questo il contributo più originale di Voltaire, c'è dell'altro: il vecchio continente è infatti la patria delle arti e delle lettere. È per merito della sua superiore cultura umanistica che l'Europa ha potuto sopravvivere a guerre e contrasti religiosi, poiché «quando una nazione conosce le arti, quando essa non è soggiogata dallo straniero, essa esce facilmente dalle sue rovine e si risolleva sempre». Là dove, invece, le arti decadono (e qui Voltaire ha in mente soprattutto il Medioevo, periodo di decadenza culturale rispetto all'antichità), si fa strada, inesorabile, la barbarie.
A parere del filosofo francese, nella storia dell'uomo si possono enumerare «quattro età felici» nelle quali «le arti sono state perfezionate»: l'età di Pericle, quella di Cesare ed Augusto, il Rinascimento e, infine, il secolo di Luigi XIV. Tutte epoche – guarda caso – appartenenti alla storia europea, alla storia, cioè, di un continente che non ha eguali al mondo sotto il profilo culturale. In altre parole, l'Europa che esce dalla penna di Voltaire è innanzitutto una repubblica letteraria, un'autentica «società degli spiriti» unita grazie ai legami che «i veri scienziati in ogni ramo hanno stretto». Tutti gli altri aspetti (si pensi soprattutto alla socievolezza e alla libertà delle donne), seppure non possano dirsi del tutto trascurabili, sono secondari. E, a questo proposito, è opportuno rilevare come l'autore del Candido porti a compimento la riflessione inaugurata dagli umanisti italiani e approfondita da Erasmo da Rotterdam, secondo la quale Europa è sinonimo di cultura. Voltaire, va detto, ha perso rispetto ai dotti del Rinascimento il senso di reverentia nei confronti della religione; ma, al di là di questo, è evidente che i presupposti ideologici sono gli stessi.
L'Europa degli illuministi è dunque un'entità compatta ed unitaria, così radicata oramai nelle coscienze dei suoi abitanti da resistere al forte impatto del nazionalismo tardo-settecentesco. Di per sé, l'attacco potrebbe essere mortale, dal momento che non pochi – scrive Chabod – temono che «l'universalità soffochi l'individualità». Tra questi è Rousseau, dell'idea che i singoli componenti dell'Europa formino realtà del tutto diverse tra loro: sottoporle alle stesse regole, afferma, sarebbe un grave errore, paragonabile a quello compiuto dallo zar Pietro il Grande nel dare avvio ad un processo di europeizzazione forzata (e quindi snaturante) della Russia. Ma, pur con queste perplessità, nemmeno l'autore del Contratto sociale può negare che «tutte le potenze dell'Europa costituiscono tra di loro una specie di sistema che le unisce con una stessa religione, con un identico diritto delle genti, con i costumi, con le lettere, con il commercio e con una sorta di equilibrio ch'è l'effetto necessario di tutto ciò». Il che fa dell'Europa «non soltanto, come l'Asia o l'Africa, una collezione ideale di popoli che non hanno di comune che un nome, ma una società reale che ha la sua religione, i suoi costumi, le sue abitudini e perfino le sue leggi, da cui nessuno dei popoli che la compongono può scostarsi senza provocare immediatamente dei torbidi».
Rousseau, pertanto, contesta la sua Europa – quella in cui vive –, ma certo non l'idea di Europa in generale. A suo parere il sistema dell'equilibrio (sempre in pericolo, minacciato di volta in volta dalla prepotenza dei singoli) dovrebbe essere sostituito da «un vero corpo politico», ovvero da un organismo federale rispettoso delle autonomie nazionali. Come è evidente, a piccoli passi ci si incammina verso l'Europa attuale. (Continua)

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martedì 10 giugno 2014

«Storia dell’idea d’Europa»: un grande classico della storiografia (terza parte)

(articolo apparso su Prima Pagina dell'8 giugno 2014)

Nel corso del Cinquecento viene elaborato il concetto di civiltà come prerogativa dell'Europa, in contrapposizione con tutto ciò che, essendo estraneo al vecchio continente, appare barbaro e selvaggio. Ma in cosa consiste, di preciso, la civiltà europea? A parere di Botero (non a caso un italiano) l'incivilimento richiede il passaggio dall'idolatria alla religione, lo sviluppo agricolo e industriale, la promulgazione di leggi certe e, sopra ogni cosa, lo sviluppo delle città, in ideale continuità con l'esperienza urbana dell'antichità (a partire dalle poleis greche) e comunale del Medioevo. Come rileva infatti Federico Chabod, «proprio col divenire a loro volta, costruttori di città, da nomadi che erano, i Germani avevano dimostrato il loro incivilirsi».
Anche gli scrittori francesi giungono grosso modo alle stesse conclusioni di Botero: quella che esce dalla loro penna è un'Europa che mostra vitalità economica, politica, religiosa e, soprattutto, culturale; un'Europa che può vantare i valori collettivi della cortesia, dell'umanità (nel senso della humanitas rinascimentale) e dell'onestà e che offre la possibilità di vivere attivamente in società. Pur con tutti i suoi difetti (le guerre, l'avidità di potere, la divisione delle classi), la civiltà è l'Europa: e, in termini di progresso, non potrebbe essere altrimenti. Solo la Cina (dal momento che quelle di America ed Africa sono universalmente considerate società primitive) tiene testa all'Europa in quanto a civiltà: essa ha arte, cultura e progresso scientifico, tanto che, da Botero a Montaigne a Francesco Carletti (mercante fiorentino autore dei Ragionamenti del mio viaggio intorno al mondo), è descritta come fosse uno Sato del vecchio continente. Il che porta il nostro discorso a un'importante conclusione: il Cinquecento non riesce ad elaborare una definizione di Europa che vada oltre la dicotomia civile-selvaggio.
Bisogna attendere il Seicento e il Settecento perché lo stallo venga superato. Un primo passo, in questa direzione, è la valorizzazione di altre culture extra-europee, come l'Egitto (culla della civiltà) e l'Arabia (lodata per la tolleranza in campo religioso). Valorizzazione che contiene, in nuce, un nuovo elemento che si aggiunge alla mai sopita polemica antieuropea: la critica, destinata diventare feroce condanna con gli illuministi, del fanatismo religioso (causa, non meno della politica, di sanguinose guerre) del vecchio continente. Al riguardo è significativo che in quegli anni fiorisca il nuovo genere letterario degli pseudo-viaggi: di solito si tratta di raccolte di lettere che l'autore finge siano scritte da un non europeo in viaggio per l'Europa, nelle quali le critiche a usanze e costumi si fanno radicali. E ciò che da esse emerge è una rivoluzionaria idea d'Europa, incentrata non più sul principio della superiorità, bensì su quello, assai meno presuntuoso, della diversità.
Il successo della letteratura dei viaggi immaginari è dovuto in gran parte al fatto che essa annovera un capolavoro assoluto come le Lettres persanes di Montesquieu. L'opera è una fitta corrispondenza tra due visitatori persiani in viaggio nel vecchio continente e diversi amici e conoscenti in Oriente. Dallo scambio di opinioni emergono le profonde differenze che distinguono l'Europa dal resto del mondo. Innanzitutto la politica: riprendendo Machiavelli, Montesquieu propone la duplice equazione Europa = molti Stati, ciascuno impossibilitato ad esercitare un potere assoluto e Asia = pochi Stati retti da sovrani con poteri illimitati. Con tutta evidenza, lo scrittore francese ha in mente il concetto di libertà (e non a caso i due viaggiatori persiani restano colpiti dall'esistenza, in Europa, di repubbliche): ma la sua concezione di libertà si discosta ormai nettamente da quella dell'autore del Principe, teorico della ragion di Stato quale supremo valore civico cui è doveroso subordinare la vita e le esigenze dei singoli; quella di Montesquieu è una libertà contro lo Stato, intesa come tutela dei diritti dell'individuo rispetto all'invadenza e alla forza coercitiva del governo centrale. Un esempio, in tal senso, è quello della giustizia: l'Europa non è infatti solo libertà contrapposta al dispotismo. Nelle Lettres persanes il vecchio continente è anche il luogo dell'equità, dove, rispetto all'Oriente, si applicano pene miti, al punto che – scrive Chabod – «otto giorni di prigione e una leggera multa colpiscono lo spirito di un Europeo [...] tanto quanto la perdita di un braccio intimidisce un Asiatico».
Fin qui, dunque, solo aspetti positivi: ma, prosegue Montesquieu, Europa è anche – siamo alle solite – sinonimo di guerra e prevaricazione. Per lo scrittore francese è giunta però l'ora di guardare in faccia la realtà: è la ragion di Stato (la stessa tanto lodata dal Machiavelli) la vera causa del male che affligge l'Europa. A cagione della sete di potere il diritto pubblico è continuamente violato per interessi di parte; le leggi sono ovunque sopraffatte dalla corruzione. Se quindi la superiorità europea è indiscutibile a livello di principi teorici, il vero problema è rappresentato dai diffusi difetti di applicazione di tali principi. Affermare cioè, come già aveva fatto Erodoto, che il solo autentico sovrano è la legge rischia di risultare completamente inutile se il sovrano non riesce a farsi rispettare (in primis, s'intende, dai governanti).
Proseguendo nella lettura delle Lettres, si passa poi al capitolo – senz'altro il più originale – sui costumi. A colpire i due visitatori persiani sono il brio e la gaiezza degli europei (evidenti in particolare per quanto concerne il rapporto con le donne), contrapposti alla «gravità» orientale. Da una parte, quindi, una marcata socievolezza; dall'altra l'isolamento e un esasperato pudore. Ma non solo: tipicamente europea è quella che Montesquieu definisce «passione per il lavoro», un'alacrità che non manca di raggiungere eccessi al limite del paradossale («Voi vedete a Parigi – si legge in una lettera – un uomo che ha abbastanza da vivere fino al giorno del giudizio e che pure lavora senza posa, e rischia di accorciare i suoi giorni per accumulare, dice egli, di che vivere»). Il che, però, non implica affatto un giudizio negativo: la auri sacra fames degli europei è anzi degna di elogio, poiché si traduce in voglia di fare, produrre e creare (ed è facile scorgere in questa forma mentis gli incunaboli della società capitalistica moderna).
Altra peculiarità dell'Europa sono la scienza e la tecnica. Esse, rileva Montesquieu, sono senza dubbio sinonimo di progresso, ma a patto – e qui ritorna il tema, già anticipato a proposito della politica, dei difetti di applicazione – che non se ne faccia un cattivo uso. Rispetto al passato, il passo è comunque molto importante: «Questa – sottolinea Chabod – [...] è la maggior novità di fronte al "sentire" europeo del '500 il quale si fondava soprattutto sul fattore religioso (cristianità), e culturale, ma d'una cultura prettamente umanistica, cioè letterario-filosofica. Ora, a siffatta cultura (les arts) s'aggiunge la cultura scientifica (les sciences), la quale, anzi, andrà sempre più primeggiando». È la matematica, in altre parole, ad affascinare l'uomo del Sei e Settecento, il quale viene sedotto dalla prospettiva di poter conseguire, attraverso di essa, una verità certa e assoluta. Studiosi del calibro di Galilei e Newton diventano quindi i rappresentanti di un nuovo modo di concepire l'Europa: non più solo terra di cultura governata da istituzioni avanzate, bensì, soprattutto, patria della scienza e del progresso.
Ciò che invece Montesquieu considera, senza mezzi termini, un aspetto fortemente negativo della società europea è la religione. E qui non si tratta certo di una questione di difetti di applicazione: in questo campo, l'opposizione dello scrittore francese è drastica. Come rileva infatti Chabod, mentre nel Cinquecento «l'esser l'Europa cristiana era la prima delle sue virtù di fronte alla non-Europa, ora avviene il contrario: se l'Europa – che politicamente, culturalmente vale di più degli altri – ha una pecca, questa è dovuta proprio al clero, al papismo, al fanatismo religioso, allo spirito teologico che impaccia la scienza, e contraddice alla filosofia». Al riguardo, le Lettres persanes sono categoriche, a partire dall'amara constatazione che «non vi è mai stato regno in cui siano successe tante guerre civili come nel regno di Cristo».
La conclusione di Montesquieu è che, in uno Stato, è preferibile che convivano più religioni. Il vecchio continente, per come lo vede lui, è infatti dilaniato dal cancro dell'intolleranza: un male, così tipicamente cristiano, che rischia, se non curato, di divorare l'Europa dall'interno. (Continua)

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giovedì 5 giugno 2014

«Storia dell'idea d'Europa»: un grande classico della storiografia (seconda parte)

(articolo apparso su Prima Pagina dell'1 giugno 2014)

La prima formulazione di carattere politico del concetto di Europa spetta a Machiavelli: «Voi sapete – afferma nell'Arte della guerra – come degli uomini eccellenti in guerra ne sono stati nominati assai in Europa, pochi in Africa e meno in Asia. Questo nasce perché queste due ultime parti del mondo hanno avuto uno principato o due e poche repubbliche; ma l'Europa solamente ha avuto qualche regno e infinite repubbliche».
Naturalmente, mentre elabora queste righe, lo scrittore fiorentino non ignora che anche in Europa vanno consolidandosi Stati monarchici; nondimeno egli è convinto che il vecchio continente sia caratterizzato da forme politiche uniche, radicalmente differenti rispetto a quelle diffuse nel resto del mondo. Precisa infatti nel Principe: «E' principati, de' quali si ha memoria, si truovano governati in dua modi diversi: o per uno principe e tutti li altri servi, e' quali, come ministri per grazia e concessione sua, aiutano governare quello regno; o per uno principe e per baroni, li quali, non per grazia del signore, ma per antiquità di sangue, tengano quel grado».
Nessun accenno alla vecchia idea di christianitas, quindi. L'Europa di Machiavelli ha un'identità politica ben precisa, che non dipende dall'epoca storica cui si fa riferimento (e infatti, scrive, così come il governo di Dario era «simile al regno del Turco», in Occidente gli Stati erano più frazionati al loro interno, in modo tale da rendere impossibile la totale sottomissione ad un sovrano sul modello orientale). Riassumendo, precisa Federico Chabod, possono delinearsi due profili ben distinti: «In Europa repubblica o monarchia non assoluta, in Asia monarchia assoluta dispotica». Il tutto senza dimenticare che, quando parla di libertà occidentale contrapposta alla schiavitù orientale, Machiavelli non intende – come invece accadrà con Montesquieu e Voltaire – una libertà contro lo Stato, bensì, al contrario, la possibilità di intervenire nello Stato. Egli ha in mente, cioè, una libertà attiva (sull'esempio degli antichi), non passiva (come invece si viene definendo nelle società moderne).
Ciò che conta, però, ai fini del nostro discorso è che l'autore del Principe ha ormai ben chiara la differenza politica tra Europa e non-Europa. In questo egli coglie l'eco della tradizione classica, che già all'epoca delle guerre persiane aveva tracciato un solco profondo tra libertà delle poleis e dispotismo orientale. Ma va anche oltre – considerato che vive nel periodo in cui vanno formandosi gli Stati nazionali –, individuando un'altra fondamentale caratteristica dell'Europa: l'equilibrio delle potenze. Machiavelli, insieme con Guicciardini, pensa dapprima all'Italia, con Lorenzo de' Medici ago della bilancia tra gli Stati della penisola. Ma, dopo di lui, l'idea viene ripresa dalla pubblicistica d'oltralpe, tant'è che nel XVIII secolo l'equilibrio verrà equiparato ad una sorta di implicita forma costituzionale europea, mentre Voltaire tesserà l'elogio della diplomazia come strumento privilegiato per dirimere le controversie internazionali. Ma in cosa consiste, in pratica, questo equilibrio? Scrive Chabod: «Molteplicità di Stati in Europa; necessità di tener in piedi siffatta molteplicità per salvare la "libertà" dell'Europa e impedire l'avvento di una "monarchia universale", fosse di Carlo V o Filippo II, fosse di Luigi XIV, che avrebbe significato la fine di quella libertà; necessità pratica conseguente di un continuo lavorio diplomatico, a mezzo di una disciplina stabile, ch'era appunto creazione, dopo che italiana, dell'Europa moderna, cinque e seicentesca: tali i presupposti e le giustificazioni della dottrina dell'equilibrio».
L'Europa appare dunque come «un corpo dalle molte anime», la libertà delle quali deve essere preservata – come rilevano anche i cosiddetti utopisti, che giungono a suggerire di istituire un organismo permanente sovranazionale incaricato di sopire i dissidi tra le potenze – proprio per garantire la sopravvivenza di un'entità politica composita, ma allo stesso tempo percepita come unitaria. L'equilibrio diviene pertanto l'unica forma possibile di convivenza: anzi, per certi versi, l'equilibrio è l'Europa, giacché ne definisce l'identità multiforme stabilendo il principio che la tutela dei diritti del singolo componente sia da intendersi come garanzia della libertà dell'intero agglomerato sovranazionale.
Vero momento di svolta nel processo di definizione di un'identità europea è però quello delle grandi scoperte geografiche. Esse hanno importanti conseguenze economiche (il commercio marittimo sull'Atlantico, l'afflusso di metalli preziosi, l'ascesa dei prezzi...), ma non mancano di influenzare profondamente quella che Chabod definisce «vita spirituale europea». Per gli abitanti del vecchio continente dire America, nel tardo Cinquecento, equivale a sancire un'inedita superiorità dei moderni nei confronti degli antichi (dall'Umanesimo considerati maestri indiscussi in ogni ramo del sapere), con un conseguente sconvolgimento del comune modo di pensare. Si fa strada, cioè, la rivoluzionaria idea del progresso, che tanto peso avrà nella concezione filosofica degli illuministi. E, con essa, la necessità di individuare i valori sui quali si fonda la superiorità dell'Europa, che del progresso – appunto – diviene l'emblema.
Ancora una volta, come già era accaduto per gli antichi Greci con gli Orientali, gli europei costruiscono un'immagine di se stessi per contrasto. La letteratura di viaggio – genere di enorme successo nel XVI secolo – svolge al riguardo un ruolo fondamentale, contribuendo a mettere a fuoco le differenze tra Europa e resto del pianeta. Differenze che – si badi – non sono più essenzialmente religiose, dal momento che la cristianità ha valicato i confini del vecchio continente (ed è inoltre stata parecchio indebolita dalla Riforma). Ciò che contraddistingue l'Europa è oramai la sua indiscussa superiorità tecnica e culturale.
Ma questo non è il solo modo di vedere le cose. Perché se Europa vuole dire progresso, per altri versi essa significa anche continue guerre. E non sono pochi gli scrittori che maturano una polemica insofferenza nei confronti dell'avidità di dominio dei vari Stati nazionali, tanto da inventare il mito del buon selvaggio (extra-europeo, s'intende), rimasto estraneo alla corruzione di una politica irrimediabilmente degenerata. L'idea, che sarà ripresa da Rousseau, ricalca – ma a parti invertite – la tradizionale dicotomia romano-barbaro: ora sono gli europei a vestire i panni degli incivili. È l'amore della pace a guidare questi scrittori, i quali immaginano società perfette che non trovano riscontro nella realtà (descrivono, cioè, un'utopia, non di rado ispirandosi al modello medievale del paradiso terrestre), oppure idealizzano quelle esistenti sul modello della Germania di Tacito. Ma è fondamentale tenere presente un aspetto: la polemica antieuropea non deriva dal desiderio di porre fine all'esperienza religiosa, politica e culturale dell'Europa, essendo vero l'esatto contrario. Se il vecchio continente è sotto accusa è per sommo amore di un'Europa che si vorrebbe rigenerare, rendere più saggia e tollerante.
Lo stesso Montaigne, che dell'antieuropeismo è forse l'esponente più rappresentativo, quando negli Essais tesse l'elogio della genuina spontaneità degli abitanti del nuovo mondo – rammaricandosi per le «tante città rase al suolo, tante nazioni sterminate, tanti milioni di uomini passati a fil di spada» –, ha ben chiaro in mente il progetto di rendere l'Europa più umana, più civile. Il che, a suo parere, potrebbe avvenire solo a patto di improntare i rapporti con gli altri popoli su valori di rispetto reciproco. Anche le società dell'America, infatti, meritano considerazione: esse sono inferiori a quelle europee solo sotto l'aspetto tecnologico, ma potrebbero benissimo dare lezioni di moralità a molti governi del vecchio continente. La conseguenza di questo diffuso modo di pensare è ben inquadrata da Chabod: «Se tiriamo le somme, [...] giungiamo alla constatazione che, in opposizione al barbaro e selvaggio, viene ampiamente elaborato il concetto di civiltà. Se manca ancora la parola, o meglio, se essa parola è ancora usata raramente nel significato odierno, gli elementi che le infonderanno poi tutto il suo valore sono ormai raccolti». E la civiltà, seppur bisognosa di correzioni, non può che essere l'Europa. (Continua)

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