venerdì 9 agosto 2013

Cesare d'Este, il duca che perse Ferrara

(articolo apparso su Prima Pagina del 4 agosto 2013)


Introduzione di Luigi Malavasi Pignatti Morano

 

«Se fosse vero ciò che della forza delle stelle hanno scritto in altri tempi gli strologi, bisognerebbe certo dire che questo principe fosse nato sotto una ben infausta costellazione: tante furono le traversie che ne' primi anni del suo governo si affollarono contro di lui».
Per molti dei suoi lettori, queste considerazioni di Ludovico Antonio Muratori hanno a lungo sottinteso una convinzione ben radicata: Cesare d'Este, il duca che dovette cedere Ferrara a Clemente VIII nel 1598, fu un sovrano arrendevole, un Don Abbondio ante litteram costretto, lui «vaso di coccio», a viaggiare tra due grossi «vasi di ferro», il papa e l'imperatore del Sacro Romano Impero. Le «traversie» cui alludeva il Muratori erano legate alla nascita del futuro duca. Cesare infatti apparteneva a una linea di discendenza "infetta", essendo figlio di Alfonso di Montecchio, a sua volta nato di contrabbando da una relazione tra il duca Alfonso I e Laura Dianti. In altre parole, egli non possedeva perfetti requisiti per ascendere al potere: se la scelta cadde infine sul suo nome fu perché il duca Alfonso II – figlio di Ercole II, successore di Alfonso I – nel 1597 morì senza eredi legittimi.
Pur essendo stato designato erede dallo stesso Alfonso II, Cesare entrò subito in contrasto col pontefice, che rifiutava di riconoscere la successione. Il ducato che egli rivendicava era infatti il risultato di una composita concessione feudale: Modena, Reggio e Carpi erano assegnate dall'imperatore; Ferrara dal papa. Ma se Rodolfo II non si oppose alla nomina di Cesare quale duca di casa d'Este, Clemente VIII intimò a quest'ultimo di abbandonare Ferrara – città di cui gli Estensi detenevano l'investitura papale sin dal 1332 – e, di fronte alla resistenza di Cesare, radunò 20.000 fanti presso Faenza. A tale perentorio monito seguì, il 23 dicembre 1597, la scomunica del duca d'Este, segno inequivocabile che il papa non intendeva rinunciare ai suoi diritti (una bolla emanata nel 1567 da Pio V stabiliva in effetti che i figli illegittimi non potessero vantare diritti di successione nei feudi ecclesiastici).
Immediatamente a Cesare venne meno il sostegno delle potenze europee, mentre il popolo, immiserito dalla politica vessatoria a base di tasse del defunto Alfonso II, pareva sul punto di voltargli le spalle. Messo alle strette, egli giocò allora la carta della diplomazia, anche perché la sua profonda religiosità gli impediva di affrontare il papa alla stregua di un nemico. Inviò pertanto Lucrezia d'Este, sorella di Alfonso II, a trattare col cardinal Aldobrandini, che si trovava a Faenza a capo delle truppe pontificie. La scelta della cugina per tentare una conciliazione col papa fu, secondo alcuni, del tutto controproducente, dal momento che tra Lucrezia e il duca non correva buon sangue. Ma al di là di ogni possibile congettura, resta il fatto che i margini di trattativa erano ridotti. Lucrezia dovette perciò prendere atto della volontà di Clemente VIII di avocare Ferrara alla Santa Sede e il 12 gennaio 1598 concluse un accordo – noto come Convenzione faentina – che sacrificava sì la capitale, ma quantomeno garantiva la sopravvivenza dello Stato estense.
Accettando di trasferirsi a Modena, il duca ottenne che gli venisse revocata la scomunica e confermata l'investitura imperiale. Avrebbe forse potuto agire diversamente?

 

 

L'accusa di Laura Donati

 

«Si dimostrò politico poco accorto e pessimo conoscitore delle donne»

 

Cesare d’Este era una persona mite e onesta. Non si macchiò di crimini e non ebbe comportamenti disdicevoli. Tuttavia anche a lui si possano imputare gravi colpe, non di natura morale bensì politica, in particolare relativamente alla perdita di Ferrara.
Gli antefatti sono abbastanza noti. La linea legittima della famiglia d’Este si estingue con Alfonso II, per cui l’eredità passa al ramo collaterale dei Montecchio, nella persona di Cesare cugino dell’ultimo Duca.
Il Papa non riconobbe questa discendenza e tolse agli Estensi il feudo pontificio di Ferrara.
In questo frangente Cesare non si mostrò, a mio avviso, all’altezza della situazione.
Sono due le mancanze che gli possono essere ascritte, la seconda delle quali imperdonabile.
La prima si riassume in un atteggiamento troppo rinunciatario di fronte alle pretese, legittime ma basate su un’interpretazione pretestuosa dei fatti, del Papa. È vero che un eventuale conflitto armato con il Vaticano non aveva nessuna possibilità di concludersi con una vittoria. Ma Cesare avrebbe potuto dimostrare più energia, giocando, come sempre hanno fatto gli Estensi, negli interstizi della grande politica europea che consentivano, a un piccolo stato, ampi margini di manovra.
Gli Estensi sono sempre stati refrattari all’idea di versare il sangue dei propri sudditi, e questo va ascritto tra i loro meriti, ma in questo caso pur senza arrivare al confronto armato Cesare avrebbe potuto fare di più.
Il secondo errore, gravissimo e decisivo, è stato quello di aver dato l’incarico di gestire le trattative con il Papa alla cugina Lucrezia.
Perché fu un gravissimo errore? Per rispondere bisogna fare un passo indietro di un paio di decenni. Allora regnava Alfonso II, e la sorella di lui Lucrezia era sposata con Francesco Maria della Rovere, duca d’Urbino. Quest’ultimo era un poco di buono, nella vita pubblica e in quella privata, tanto che Lucrezia, esasperata, ottenne il permesso dal Papa di abbandonare il tetto coniugale e tornare a vivere a Ferrara. Qui intrecciò una relazione illecita ma d’amore con Ercole de’ Contrari. Se non ché questo menage venne a conoscenza di Alfonso di Montecchio, padre di Cesare, il quale ne fece parola con il nipote, il duca Alfonso II. Questi fece assassinare il De’ Contrari.
Da allora Lucrezia giurò vendetta contro lo zio Alfonso.
Quando salì al trono, Cesare incaricò Lucrezia di intavolare trattative con Clemente VIII per cercare di salvare il possesso di Ferrara. Perché scelse Lucrezia? Perché la donna era in ottimi rapporti con il cardinale Aldobrandini, legato pontificio per la questione ferrarese, e quindi Cesare sperava che avrebbe potuto ammorbidire le pretese papali. Inoltre, pur conoscendo le vicende del passato, pensava che la voglia di vendetta della cugina si fosse esaurita con la morte del padre, e che mai avrebbe giocato contro la propria stirpe.
Invece non fu così. Lucrezia fece tutto quanto era in suo potere per creare a Cesare il maggior danno possibile. E Ferrara fu persa per sempre. Sulla sua tomba mano ignota la definì “inimica del proprio sangue”.
Cesare si dimostrò politico poco accorto e soprattutto pessimo conoscitore delle donne.

 

 

La difesa di Gian Carlo Montanari

 

«Ebbe i sommi pregi della pazienza tessitrice e della lungimiranza»

 

Cesare d'Este fu certamente, comunque si giudichi il suo operato, una delle più stimolanti personalità fra le dieci (otto duchi e due arciduchi) che governarono Modena e lo Stato Estense dal 1598 al 1859. Duca quasi per caso, perché Alfonso II d'Este non ebbe prole e lo scelse a malincuore; governante senza preparazione iniziale di un territorio che subito gli venne tolto per metà abbondante; signore contestato anche dai familiari e tormentato per l'agire di alcuni di essi (la moglie Virginia de' Medici finì pazza, il figlio maggiore, futuro duca Alfonso III, ebbe gioventù scapestrata, un nipote, anche lui futuro duca Francesco III che la vulgata vuole suo dispregiatore); costretto per due terzi del suo regnare a subire l'influenza non sempre benefica del suo segretario Giovan Battista Laderchi; circondato da confinanti infidi e si pensi alle due assurde guerricciole di Garfagnana contro Lucca; oberato da questi balzelli, il primo signore di Modena Capitale ebbe i sommi pregi della pazienza tessitrice e della lungimiranza.
Questo fece sì che, nonostante le critiche anche feroci (si pensi ad Alessandro Tassoni...), Cesare d'Este, costretto a lasciare Ferrara e a rischio continuo di perdere anche il resto del suo piccolo regno, è infine colui che gettò le basi dei 261 anni e mezzo di potere Estense. Superati gli Scilla e Cariddi del primissimo periodo modenese, eliminati cioè pericoli interni (l'opposizione di Marco Pio da Sassuolo) ed esterni (le contestazioni di Anna di Nemours, la francese sorella di Alfonso II che piantò grane ereditarie e dinastiche), smorzate le contestazioni, egli impostò un governare di stampo assolutistico, con feudatari fedeli (Rangoni, Montecuccoli, Boschetti...) e i suoi trent'anni di regno sono da considerarsi un esempio singolare e quasi unico di diplomazia, volta a salvaguardare il nome e il potere ereditato.
Dunque, non certo Cesare, il duca pavido, bensì un uomo di non comuni doti di temporeggiatore che tra sfortune familiari e attacchi al suo Stato salvaguardò e concretizzò il suo potere e lo rese stabile. Con benevolenza si può dire che chi ha parlato di Cesare definendolo poco acuto lo ha sicuramente sottovalutato. Un solo particolare che riteniamo carino per confutare questo giudizio. Il duca Cesare era (si veda il cronista Spaccini suo contemporaneo) un carattere brioso e amava il teatro. Una volta, dopo essere stato in giornata in Romagna per omaggiare il Papa, tornò verso Modena coi suoi fidi al galoppo e in serata se ne andò a gustare... una commedia! Credo basti per confutare coloro che lo hanno definito molle e pavido. Era invece uomo che seppe mantenere equilibrio fra le mille prove dell'esistere e riuscì a guardare lontano, gustando intensamente le poche gioie della vita. Grazie, Duca Cesare d'Este, Modena ti deve qualcosa.

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La storia di un paiuolo: l'uso della parabola in chiave socialista

(articolo apparso su Prima Pagina del 28 luglio 2013)

Alla base dello sfruttamento dei lavoratori stava, per i socialisti, il sistema di produzione capitalistico. Per spiegare in che cosa esso consistesse, «Il Domani» – periodico socialista modenese di inizio Novecento – si serviva di frequente di storielle esemplificative e di brevi racconti, che riprendevano e rimodulavano in chiave socialista il linguaggio delle parabole evangeliche ed erano studiati per rendere accessibile al lettore-lavoratore una materia altrimenti per lui ostica. Un esempio, tra i vari possibili, contribuisce a far luce sulle strategie di comunicazione e persuasione della propaganda del PSI. Si tratta di un dialogo tra Pietro e Rodolfo, «due operai» che «discorrono di socialismo»:
«Pietro – Tu che sei socialista, sapresti dirmi cosa s'intende per capitale?
Rodolfo – Per capitale […] s'intendono i mezzi di produzione, cioè i campi, le ferrovie, le miniere, gli opifici, ecc. che appropriati dalla classe dirigente dominano e sfruttano il lavoratore.
P. – E col trionfo del socialismo che avverrà di codesto?
R. – Col trionfo del socialismo il capitale […] verrà accentrato nelle mani della società, e dichiarato comproprietà dei cittadini, ovvero patrimonio sociale, proprietà collettiva.
P. – E i profitti principali di codesta trasformazione quali saranno per il lavoratore?
R. – Ecco questi profitti:
1. Che tutti lavoreranno per far fruttare il patrimonio sociale, secondo le loro abilità, col diritto di ricavarne un sufficiente guadagno;
2. Che tutti lavorando, basteranno solamente tre o quattro ore di fatica al giorno per vivere agiatamente;
3. Che il resto del tempo anch'essi potranno dedicarlo agli studi, ed interessarsi delle questioni più ardue e più importanti;
4. Che le classi viventi ora del prodotto del nostro lavoro sarebbero eliminate, essendo tutti obbligati a compiere la propria parte di lavoro socialmente utile, sia intellettuale, che materiale.
P. – Bravo Rodolfo, sono anch'io socialista, ma ci vorrà del tempo, nevvero?
R. – Naturalmente, ma chi la dura la vince».
Dal dialogo tra i due operai emergono almeno due aspetti interessanti. In primo luogo, come premessa inconfutabile, Rodolfo (che interpreta il ruolo del socialista che ha alzato lo sguardo per vedere oltre, che ha messo a frutto gli insegnamenti ricevuti e mostra di aver ben compreso i meccanismi che determinano lo sfruttamento del proletariato) spiega che il capitalismo borghese è alla base di una sorta di ingiustizia distributiva: per il solo fatto di possedere i mezzi di produzione, infatti, il «succhione» (ossia l'avido padrone) senza lavorare di persona mette a frutto il lavoro dei suoi operai, producendo una ricchezza che finisce però pressoché interamente nelle sue tasche. Con l'avvento del socialismo, invece – ed è in un certo senso la morale del racconto –, chi non lavora è destinato a non mangiare, dal momento che in una società egualitaria i parassiti non sono ammessi.
 In secondo luogo, Rodolfo nel dialogo rappresenta la personificazione del socialismo, inteso come dottrina che si pone l'obiettivo precipuo di educare le masse in vista della loro emancipazione sia economica che culturale. Non per niente, infatti, egli richiama l'attenzione sul fatto che nella società socialista l'operaio ha tempo da dedicare agli studi: solo acquisendo consapevolezza dei propri diritti, solo attraverso la libera e profonda comprensione del capitalismo e del suo regime di oppressione, Pietro (ovvero il lavoratore che ancora deve compiere il processo di maturazione socialista e che per questo ha bisogno di essere guidato dal Rodolfo-PSI) può dirsi, nel finale del dialogo, a tutti gli effetti socialista. In questo senso, dunque, è possibile vedere nell'intera storiella una metafora che inquadra alla perfezione il significato ultimo della propaganda: «Il Domani», quale organo di partito, rappresentava cioè, nelle intenzioni dei socialisti che ne curavano la redazione, un più sofisticato Rodolfo.
Un aspetto su cui il foglio modenese insisteva particolarmente era la condanna dell'ozio borghese, che sottraeva ricchezza utile rendendola improduttiva sotto forma di rendita. «Se mettessimo al lavoro tutti gli oziosi – argomentava infatti "Il Domani" –, e se facessimo lavorare utilmente tutti coloro i quali ora lavorano inutilmente, o anche in modo dannoso alla società, si avrebbe una produzione enormemente aumentata, e quindi un reddito molto maggiore di quello attuale». Di conseguenza, costringendo tutti gli individui a contribuire con il proprio lavoro al benessere della società, «non si avrebbe più miseria generale, ma si potrebbe avere l'agiatezza per tutti». Inoltre, con la collettivizzazione dei mezzi di produzione sarebbe stata superata la spietata logica della concorrenza: i lavoratori «sarebbero tutti d'accordo nel produrre il meglio possibile, e non vi sarebbero gli sprechi che vi sono oggi». Ma era del tutto evidente che il capitalista intendeva difendere a tutti i costi la propria condizione privilegiata, come sottolineava ironicamente il settimanale modenese che al borghese faceva recitare la «preghiera di un parassita», nella quale egli, rivolgendosi al Dio Lavoro, chiedeva: «Non ascoltare la voce perversa dell'agitatore, poiché egli Ti insegna la dottrina dello scontento e dell'egoismo, dicendoti: "Deve mangiare solo colui che si guadagna il pane con il sudore della fronte"».
Sempre ricorrendo a una storiella, «Il Domani» tentava di semplificare le dinamiche che stavano alla base della nascita e del consolidamento della società capitalistica:
[Gli abitanti di un povero villaggio sono costretti a emigrare in America a causa della disoccupazione. Durante il viaggio, però, una tempesta fa naufragare la nave, consentendo solo a pochi superstiti di raggiungere un'isola deserta. Giunti a terra, siccome sono sprovvisti di tutto, essi decidono di provare a recuperare dal relitto ogni oggetto che possa tornare utile].
«E pesca e afferra e uncina e tira, riuscirono finalmente a trarre dalle acque […] un paiuolo.
– Questo è mio: disse uno dei naufraghi, e presolo se ne andò.
Continua a pescare, ad uncinare, a tirare, dopo molti stenti giunsero a trarre a riva un sacco di frumentone.
– È la provvidenza, si misero a gridare.
– Piano, soggiunse uno di loro, pensando forse a quello che era avvenuto del paiuolo: questo deve servire per tutti. Noi lo semineremo e così avremo almeno la polenta […].
Tutti approvarono e si diedero a coltivare la terra.
In capo a pochi mesi ne raccolsero trenta sacchi […].
– Benissimo: adesso finalmente faremo la polenta: e si misero a macinare tra due pietre il granturco.
Ma, quando ebbero la farina pronta, e pronta la legna, ed il sale che l'acqua del mare aveva somministrato, s'avvidero che per fare la polenta tutto ciò non bastava; ci voleva il paiuolo.
– Volentieri: ma patti chiari. Io vi do il paiuolo, ma a condizione che voi mi diate metà della polenta.
– La metà della polenta! Ma come? Perché? Con qual diritto? Con quale giustizia? Sarebbe mostruoso.
– Lasciamo stare tutta questa roba. Il paiuolo è mio, e se lo volete dovete darmi la metà della polenta, se no fate a meno: libero io di darlo, liberi voi di rifiutarlo».
Quindi alla base del sistema produttivo capitalistico stava un'appropriazione indebita dei mezzi di produzione (il capitale-paiuolo) da parte di coloro che, senza alcun diritto («con quale giustizia?»), se ne erano autoproclamati padroni. Il paradosso però consisteva nel fatto che, per fare la polenta (per vivere), i naufraghi-operai erano costretti a lavorare alle condizioni loro imposte dal proprietario del paiuolo. E in questa logica essi vedevano una necessità più che un abuso, facendo involontariamente il gioco del padrone. Solo il socialismo – questo era il senso della storiella – indicava la via della redenzione, in quanto spingeva il lavoratore a guardare oltre, per comprendere che il bisogno materiale non poteva giustificare lo sfruttamento. Anche il padrone, infatti, aveva necessità che gli operai mettessero a frutto il suo capitale: senza il loro contributo, la sua ricchezza di beni sarebbe stata improduttiva. Occorreva dunque che i proletari acquisissero la consapevolezza del proprio ruolo indispensabile all'interno del processo produttivo, che comprendessero che l'arma del ricatto (fame = lavoro) poteva ritorcersi contro i padroni (no lavoro = no profitto), i quali, con l'avvento del socialismo, non avrebbero più potuto permettersi il lusso di oziare come parassiti della società.
Il lavoro era pertanto anch'esso un'essenziale forma di ricchezza, e apparteneva al proletariato, il quale doveva essere messo nelle condizioni di metterlo a frutto. «Il lavoro – argomentava "Il Domani" – crea capitali, ma non ne ha alcuno. Il lavoro fornisce il grano, ma mangia la crusca. […] Il lavoro inventa congegni per diminuire la fatica, ma le fatiche diventano più che mai onerose. Il lavoro fabbrica fucili, ma essi sparano contro di lui. Il lavoro impianta scuole ed università, ma esso rimane nell'ignoranza». Il lavoro era in sostanza una risorsa imprescindibile, il principale strumento apportatore di progresso a servizio dell'intera umanità, non dei soli padroni. «Chi rimedierà alla sua triste sorte?», domandava il foglio modenese. Ovviamente il socialismo era l'unica risposta possibile.

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Francesco Luigi Ferrari vs don Giuseppe Verri: disputa giornalistica a proposito della figura di Mussolini

(articolo apparso su Prima Pagina del 21 luglio 2013)

Nel novembre del 1922, poche settimane dopo la Marcia su Roma, il settimanale cattolico modenese «Il Popolo» ospitò un vivace confronto tra don Giuseppe Verri e Francesco Luigi Ferrari, assertori di giudizi contrastanti in merito alla valutazione dei primi atti di governo di Mussolini. I due contendenti avevano esperienze politiche molto diverse. Verri – ha scritto Luigi Paganelli – era un prete «di notevole esperienza in campo giovanile, formatosi al tempo della prima democrazia cristiana»; giunto a Modena nell’estate del 1919, tra le altre cose, «come direttore del neonato “Popolo”», guidò il periodico nella convinzione che fosse preferibile privilegiare l’«attività formativa dei cattolici» rispetto a «quella operativa in campo politico e sociale».
Ferrari era invece, in sostanza, il leader dei popolari di sinistra, già presidente della FUCI tra il 1910 e il 1912 e, ovviamente, fermamente contrario alla decisione del direttorio del gruppo parlamentare del PPI di appoggiare il ministero Mussolini.
Il confronto tra i due pareri, uno di approvazione e uno di condanna dell’operato del duce del fascismo, desta particolare interesse soprattutto se si riflette sulla sua precocità rispetto alla successiva evoluzione ultraventennale del movimento mussoliniano. A chi scrive è parso opportuno citare ampi stralci dei due interventi, lasciando al lettore la facoltà di trarre liberamente le proprie conclusioni.
Il primo articolo, di don Verri, si intitola Disciplina? ed è datato 12 novembre 1922.
«[…] In Italia, a Roma, al Governo, sembra che ci sia, e forse c’è finalmente un uomo; un uomo che concepisce lo Stato in forma dinamica, attiva, feconda. Gli impiegati, a migliaia, che sino a ieri vivevano esplicando la vita amorfa in una duplice forma: quella di sedere inutilmente per otto ore a scranna, e quella di elevare compunti sospiri al santo Patrono del 27 del mese; quegli impiegati – dice la cronaca – sono esterrefatti, perché sulla loro noia grigia è piombato un uomo che lavora… sacrilegamente anche alla festa. […] Le lezioni, energiche come frustate, piovono a destra e a manca, che è un piacere. […] Il nome santo di Dio, che dall’Italia ufficiale era bandito, ritorna e ritorna coi dovuti onori. La Messa in Santa Maria degli Angeli, cui intervengono Re, Stato Maggiore e Ministri, intenzionalmente non sarà quella di Francesco d’Assisi, ma non è neppure quella del borioso Re Sole. E il minuto di raccoglimento meditativo davanti al sarcofago del Milite Ignoto, non è scimiottatura [sic] inglese ed americana, ma è rivista di energie interiori che devonsi misurare per scagliarle in proporzione delle molteplici necessità esteriori. Gli amici stessi del Duce […] hanno dovuto convincersi che, dopo avere demolito, egli vuole ricostruire. Ed è qui, più che altrove, che si parrà la sua nobilitade. […] Saranno indizio relativo: ma i titoli di Borsa sono migliorati, e il cambio ha subito un miglioramento consolante. Anche i treni, proverbialmente ritardatari, sembrano accorgersi di una volontà singola ma ferrea, che, interprete sicura di un diffuso desiderio collettivo chiede e vuole: disciplina all’interno, rispetto e dignità all’esterno. […] Gli altri popoli, dai più ai meno evoluti e formati, sembrano avvertire che è finito il tempo in cui l’Italia poteva paragonarsi ad uno scalcinato teatro di varietà. E l’aura frizzante della disciplina nazionale, quella che incomincia, ora, a spirare dall’Alpi alla Sicilia? E sia la ben venuta. Da anni la s’invocava. E se l’uomo che racchiude in sé la potenza necessaria a ciò si chiama anche Mussolini, ogni onesto cittadino non può che approvare. Per conto mio, prego la Provvidenza d’Iddio che gli dia modo di attuare l’arduo programma; e mi auguro vicino il giorno in cui, cadute tutte le logiche riserve che s’innestano colle angolosità polemiche sin qui a buon diritto affilate, mi sia possibile pure benedire alla nostra splendida stirpe che genera, di tanto in tanto, uomini romanamente forti».
La risposta di Ferrari fu affidata ad un articolo di replica dal titolo Rilievi polemici, apparso sul «Popolo» della settimana successiva (19 novembre 1922).
«Caro D. Verri, non ti nascosi i punti nei quali il tuo pensiero dissentiva dal mio allorché mi facesti leggere il tuo articolo “Disciplina”. Ora che l’articolo è stato pubblicato vorrai permettermi di dire pubblicamente il mio giudizio in proposito. Evidentemente gli anni della guerra, le lotte durissime, combattute nella vita pubblica prima e dopo la guerra, non ti hanno tolto quella che è la facoltà caratteristica dei giovani: la facilità all’entusiasmo. […] L’entusiasmo però, se alle volte è suscitatore di “azioni” nobili e belle, mai o quasi mai è buon consigliere allorché ci si accinge a dare un “giudizio”. E, poiché nel tuo articolo “Disciplina” tu dai un giudizio, permettimi di osservarti che nello scriverlo, hai troppo sentito l’influenza di tal cattivo consigliere. Ma non è qui soltanto il mio dissenso. È più intimo e profondo. Non nego che alcuni, molti anzi, dei provvedimenti presi fino ad ora dal Governo presieduto da Mussolini sieno degni del massimo encomio. Dirò di più: ad essi vorrei poter tributare lodi ancora maggiori di quelle da te date. Ma non a questi soltanto dovevi guardare per formulare il tuo giudizio. Dovevi tener presente tutto il complesso dell’azione e del Mussolini e dei suoi seguaci prima, durante e dopo la crisi dell’ottobre se volevi che il tuo giudizio fosse esauriente. È vero che Mussolini […] scuote gli ignavi che popolano i ministeri e gli altri pubblici uffici, non ha timore di assistere e di fare assistere il Re ad una funzione religiosa. È anche vero che proprio in questi giorni sta dando il più fiero colpo alle nostre istituzioni libere […]. È anche vero che oggi, a due settimane dal trionfo di Mussolini, non appare risolto il conflitto fra partito e Stato, ma sembra avvicinarsi il giorno dell’assoluto predominio di quello su questo. Le più delicate ed importanti funzioni dello Stato le vedi infatti venire gradatamente affidate a fascisti fedeli interpreti della volontà del “capo”; gli altri sieno collaboratori sì ma dipendenti. E non mi puoi negare che “il fascismo è Mussolini”. Non ti sei accorto che dopo il 30 ottobre con raddoppiata velocità stiamo correndo verso un “governo personale”? Io, per conto mio, non mi compiaccio di questo, anche se per il momento il governo personale assicura una relativa prosperità, perché esso non assicura e non può assicurare al paese l’avvenire, che solo può essere garantito da liberi ordinamenti il cui rispetto sia religione per ogni cittadino. Il tuo entusiasmo mi pare assomigli a quello dei Francesi ammiranti i primi atti di giustizia e d’energia di Napoleone Bonaparte. Costoro non pensavano all’avvenire paghi del prosperoso presente, e non supponevano certo che da Bonaparte incominciava la decadenza francese che né le grandi vittorie di allora e di ieri poterono e potranno arrestare. Al governo personale sottostanno i popoli nella loro infanzia, si sottomettono nuovamente nella loro decadenza, sperando in essi [sic] quella pace che non riescono più a conseguire coi liberi ordinamenti. Non credo il popolo italiano decrepito tanto da abbisognare del governo di un dittatore, giudico perciò questo governo esiziale al suo avvenire. Non posso quindi compiacermi di tutto ciò che tende alla dittatura e me ne rammarico anche se si presenta sotto l’aspetto il più attraente. Ricordiamoci che “la peggiore delle camere è sempre preferibile alla migliore delle anticamere”. Ricordiamoci che i governi personali presto o tardi si riducono a governi di gruppi irresponsabili. Ricordiamoci che soltanto popoli liberamente retti hanno potuto progredire e che i governi personali, le dittature altro non hanno fatto che sfruttare ed esaurire le energie precedentemente accumulate. Ricordiamoci tutto questo, o egregio amico, e moderiamo, moderiamo molto certi entusiasmi».

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