domenica 22 febbraio 2015

«Porcomondo»: l’epopea del maiale nel territorio padano

(articolo apparso su Prima Pagina dell'8 febbraio 2015)

Sulle tavole degli italiani il maiale è da sempre una presenza fissa, verrebbe da dire insostituibile. Nel suo ultimo libro – intitolato simpaticamente Porcomondo. L’epopea del maiale nel territorio padano dall’antichità al mondo attuale (Il Novello Editore, 2014) – Gian Carlo Montanari lo considera addirittura il «re delle carni», ovvero «macchina per cibo» dalla quale – come è noto – si ricava di tutto.
Il volume intende presentare un quadro composito. Si parte infatti con una breve trattazione storica, che documenta tecniche di allevamento ed usi del maiale nel corso dei secoli, per approdare successivamente ad un divertente excursus dei popolari modi di dire aventi per protagonista il porco (alcuni, molto curiosi, in dialetto, come il seguente: Chi tos muiera l’è cunteint un dè, se al maza al porch l’è cunteint un an [chi prende moglie è contento un giorno, chi ammazza il maiale è contento un anno]); si prosegue poi con un dizionario minimo dei prodotti suini padani, con un appetitoso ricettario e, dulcis in fundo, con una lode conclusiva del prezioso animale, affidata ai versi de Gli elogi del porco, poemetto risalente al 1761 composto dal sacerdote Giuseppe Ferrari, alias Tigrinto Bistonio.
Del maiale – derivato dalla domesticazione del cinghiale – esistono varie razze, che si differenziano tra loro essenzialmente per il peso e le misure. Le denominazioni più comuni dell’animale sono molteplici, ed è bene fare un po’ di chiarezza. Suino – precisa Montanari – è il nome generico «che deriva [dal latino] sus, con riferimento al partorire», vista «la stupenda prolificità della femmina»; porco – termine che ha poi acquisito connotazione spregiativa – «deriva dal greco porikos» e allude all’abitudine dell’animale di far buchi nel terreno; maiale (parola che rimarca l’usanza di sacrificare il porco alla dea Maia, madre di Hermes) indica propriamente il suino castrato; infine «ci sono ancora il verro (nome dato al maschio) e la scrofa (nome dato alla femmina), detta pure troia», termine che tecnicamente indica un esemplare destinato alla riproduzione e che per questo ha assunto il significato volgare ed offensivo di donna dai facili costumi.
Oggi circa il 40% del consumo mondiale di carni è relativo al maiale, a riprova di quanto l’animale sia prezioso per la soddisfazione dei primari bisogni di sussistenza. Un simile dato si giustifica – va da sé – solo con la consuetudine: il maiale, infatti, è presente sulle tavole dai tempi più remoti, come si evince del resto da numerose attestazioni. Montanari è molto attento nel seguire le tracce lasciate dal suino nel corso dei secoli, tanto che il suo libro, per certi versi, altro non è che una minuziosa raccolta delle testimonianze storiche, letterarie ed artistiche riguardanti il prezioso animale. Risalendo fino all’antichità, basti ricordare che «le ossa dei maiali primordiali campeggiano […] nei musei di paleontologia», che il porco riveste un ruolo tutt’altro che secondario nell’episodio della maga Circe, nell’Odissea, e che nel trattato De agricoltura uno scrittore del calibro di Catone si prese la briga di descrivere alcune tecniche di salagione delle carni di suino. Gli esempi potrebbero continuare, ma in questa sede è sufficiente rilevare che «l’antichità ci narra in gran quantità del porco» e che l’allevamento dei suini era una pratica particolarmente diffusa in area padana (giusto per fare un esempio, tanto Strabone quanto Tito Livio citano Modena come territorio popolato da numerosi maiali).
Il tramonto della romanità nei primi secoli del Medioevo risparmiò, sostanzialmente, il maiale, che infatti – ed è un dato molto significativo – fa la sua comparsa nell’Editto di Rotari (dove è ripetutamente menzionata la figura del mastro porcaio). Giusto per avere un’idea dell’importanza del suino per gli uomini dell’epoca, è bene ricordare – nota Montanari – che «a cavallo tra primo e secondo millennio nel territorio padano un bosco era misurato e valutato secondo il numero di maiali che poteva sostentare» e che «l’economia curtense vide famiglie di contadini costretti a pagare una tassa al loro signore […] detta ghiandatico, perché si riferiva a un decimo delle ghiande raccolte per allevare il maiale».
Anche nell’arte il porco era una presenza ricorrente. I portali delle grandi cattedrali romaniche contengono infatti, ancora oggi, numerose raffigurazioni dei cosiddetti cicli dei mesi, e in quelli invernali (novembre, dicembre, gennaio) spesso sono presenti scene raffiguranti la lavorazione delle carni suine. Il Duomo di Modena, al riguardo, offre una preziosa testimonianza con la sua celebre Porta della Pescheria, tra le cui sculture troviamo, seduto su uno sgabello, un addetto all’uccisione e alla preparazione del maiale. Nell’iconografia medievale, in sostanza, il suino ha una parte da autentico protagonista. E vale la pena, a tal proposito, riportare quanto scrive Montanari su Sant’Antonio abate: «Questo personaggio che la tradizione ci dice divenne ultracentenario e visse a cavallo del III-IV secolo non si può trascurare in relazione al nostro discorso generale, perché è accostato decisamente al maiale nell’iconografia, sicché pure Dante Alighieri ne fa cenno nel canto XXIX del Paradiso […]. Gli antoniani, i religiosi che servivano negli ospedali quando scoppiò la malattia herpes zoster, comunemente detta fuoco di Sant’Antonio, nell’anno 945, ebbero il cosiddetto privilegio degli antoniani e cioè quello di poter gratuitamente ingrassare un porco nel convento. Da tutto ciò venne l’uso di rappresentare il santo con tre elementi distintivi: bastone a crux commissa, la croce egiziana a T, un campanello e un porcellino ai piedi».
Il Medioevo coincise realmente con l’affermazione del maiale quale re delle carni, come si ricava del resto leggendo gli statuti delle corporazioni coinvolte nella lavorazione dell’animale. Nel contesto padano, il porco divenne elemento imprescindibile nell’alimentazione, e vale senz’altro la pena ricordare che Modena fu uno dei centri più attivi nella produzione e nel commercio delle carni suine (rinomata era la salsiccia fina di Modena), tanto che nel Quattrocento, secondo le voci popolari, entro le sue mura dimoravano più maiali che persone. Il che – sottolinea Montanari – portava talvolta a qualche spiacevole inconveniente, come quello lamentato dal rettore della chiesa di San Marco, il cui cimitero fu devastato dai maiali allevati nelle vicinanze.
Con l’inizio dell’età moderna il primato del maiale si consolidò, e con esso anche la presenza dell’animale nella letteratura. Un caso singolare è rappresentato dal Gargantua e Pantagruel di Rabelais (ricco di riferimenti al porco), anche se senza dubbio più curioso è il proliferare, tra Cinque e Settecento, di elogi giocosi del maiale, segno evidente che i prodotti ottenuti dalla lavorazione del suino si stavano avviando a diventare una presenza fissa nelle occasioni di festa, laddove occorreva imbandire la tavola con cibi succulenti e allo stesso tempo servibili in grandi quantità. Da L’eccellenza et trionfo del porco di Giulio Cesare Croce alla Lauda in onore della salsiccia di Modena scritta dal poeta-musicista Bellerofonte Castaldi; dal già citato Gli elogi del porco di Giuseppe Ferrari/Tigrinto Bistonio a La salameide, poemetto giocoso del ferrarese Antonio Frizzi, sembra quasi di assistere al trionfo di un animale accostato sempre più di frequente al benessere e alla spensieratezza.
Oggi, del resto, siamo testimoni diretti di questa esaltante epopea. L’Emilia Romagna è assurta al rango di patria dell’industria del maiale, che contribuisce enormemente al benessere della regione attraverso l’esportazione di prodotti d’eccellenza in tutto il mondo. Un esempio particolarmente significativo è costituito, al riguardo, da Castelnuovo Rangone, comune che grazie alla fiorente industria di lavorazione delle carni suine è giunto, nel 2011, a vantare il più alto reddito medio pro-capite della provincia di Modena; e che, per rendere omaggio al prezioso animale, ha voluto che nella piazza principale fosse eretta una statua di bronzo raffigurante un porco. Un gesto simbolico, forse di poco conto, che tuttavia è espressione di un sentimento di riconoscenza che dovrebbe essere comune quantomeno a tutto il territorio padano. Perché, come giustamente nota Montanari, «il cibo fa l’uomo», nel senso che diviene parte integrante di una cultura. E del porco la nostra cultura non può proprio fare a meno.

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«Il libro nero della condizione dei cristiani nel mondo»: conoscere per comprendere il valore della testimonianza

(articolo apparso su Prima Pagina del 25 gennaio 2015)

«C’è una cosa che voglio mettere in chiaro: sono convinto che la persecuzione contro i cristiani oggi sia più forte che nei primi secoli della Chiesa. E non è una fantasia: lo dicono i numeri».
A usare queste precise parole non è stato, pochi mesi or sono, un opinionista qualsiasi, ma papa Francesco in persona, in un’intervista rilasciata al quotidiano di Barcellona «La Vanguardia» e integralmente riprodotta su «L’Osservatore Romano» lo scorso 13 giugno. Di questo intervento del pontefice, uno stralcio è citato in apertura di un significativo volume uscito da non molte settimane: Il libro nero della condizione dei cristiani nel mondo (Mondadori 2014), a cura di Jean-Michel di Falco, Timothy Radcliffe e Andrea Riccardi. Si tratta di una corposa miscellanea di saggi (circa una settantina) che raccoglie contributi di numerosi autori di diverse nazionalità e che intende tracciare un quadro il più possibile esaustivo delle persecuzioni che i cristiani stanno subendo in tutto il mondo. In questa sede, a livello introduttivo, prenderemo in esame l’intervento di John Allen (vaticanista americano del «Boston Globe»), che tenta di far luce  sulle cause che stanno all’origine di quella che egli considera una vera e propria «guerra globale».
Le prime riflessioni di Allen prendono spunto da un recente fatto di cronaca. Nel maggio dello scorso anno, Meriam Yahia Ibrahim Ishag, ventisettenne sudanese, è stata condannata a morte con l’accusa di apostasia dall’islam. Figlia di un musulmano che l’ha abbandonata quando era ancora una bambina, Meriam è stata cresciuta cristianamente dalla madre etiope e ha successivamente sposato un cristiano. Un tribunale islamico, tuttavia, ha stabilito che la giovane avrebbe avuto l’obbligo di professare la religione del padre e che la sua «conversione» (anche se Meriam è sempre stata esclusivamente cristiana) è da considerarsi illegale in base alla legge della sharia. Scrive Allen: «Le sono stati concessi tre giorni per abiurare la sua fede, ma si è rifiutata di farlo ed è stata rinchiusa nel carcere federale femminile di Omdurman, insieme al figlio Martin di venti mesi. Durante la prigionia ha dato alla luce una bambina. […] In teoria Meriam avrebbe dovuto essere punita con cento frustate subito dopo il parto per aver sposato un cristiano, e dopo due anni, in caso di mancata abiura del cristianesimo, con l’impiccagione per il reato di apostasia».
Fortunatamente il caso ha avuto enorme risonanza mediatica, e le pressioni internazionali a più livelli hanno infine portato alla scarcerazione di Meriam. Il punto però, rileva Allen, è che l’episodio non va considerato un dramma isolato ed eccezionale – cosa che invece molti sono indotti a credere –, bensì come il prodotto di una «guerra globale contro i cristiani» che tende inspiegabilmente a passare sotto silenzio.
Alcuni dati statistici aiutano a chiarire la tesi del vaticanista del «Boston Globe».
– A Baghdad, delle 65 chiese cristiane presenti, circa 40 sono state bombardate almeno una volta dal 2003 (anno di inizio della cosiddetta Seconda guerra del Golfo). Più in generale, per quanto concerne l’Iraq, all’epoca della Prima guerra del Golfo (1991) la comunità cristiana era composta da almeno 1,5 milioni di persone; oggi si calcola che il numero sia sceso a 500.000 unità (o addirittura a 150.000 secondo stime ritenute più realistiche).
– Nello Stato di Orissa (India nordorientale), nel 2008 una serie di sommosse è terminata con l’uccisione di 500 cristiani (molti dei quali massacrati a colpi di machete da fondamentalisti indù), il ferimento di altre migliaia e la distruzione di 5000 abitazioni e 350 fra chiese e scuole.
– In Birmania (paese a netta maggioranza buddista), i gruppi etnici chin e karen (di fede cristiana) sono considerati dissidenti dal regime e tenacemente perseguitati mediante intimidazioni continue, arresti, condanne a lavori forzati e uccisioni.
– In Nigeria, il movimento islamico Boko Haram ha da anni preso di mira la popolazione cristiana, ed è ritenuto responsabile della morte di quasi 3000 persone dal 2009. I suoi seguaci dichiarano apertamente di voler estirpare la presenza cristiana da alcune aree del paese.
– In Corea del Nord, si stima che circa un quarto della popolazione cristiana (tra le 20 e le 40.000 persone) sia rinchiuso in campi di lavoro per essersi rifiutato di aderire al culto di Kim Il-sung. Secondo altri conteggi, a partire dal 1953 (anno dell’armistizio che consolidò la divisione della penisola coreana) circa 300.000 cristiani sono spariti nel nulla, presumibilmente morti.
I dati qui riportati offrono solo una panoramica parziale delle persecuzioni che i cristiani subiscono in tutto il mondo. Basti aggiungere, infatti, che secondo alcuni recenti calcoli il totale dei morti cristiani in un anno si aggira intorno alle 7000 unità e che nel 2012 il Pew Forum on Religion and Public Life di Washington DC ha stimato che i cristiani sono soggetti a varie forme di vessazione in ben 139 paesi, ovvero in quasi tre quarti delle società del pianeta.
Resta a questo punto da chiedersi: perché proprio i cristiani? L’opinione più diffusa tiene conto sostanzialmente del conflitto sempre più aspro tra fede e secolarismo e del cosiddetto «scontro di civiltà», che contrappone la cristianità all’islam radicale. Ma occorre tenere presenti soprattutto quattro fattori fondamentali, che a parere degli esperti di discriminazione religiosa rivestono un ruolo decisivo:
– Il numero. Molto banalmente, i cristiani sono i più perseguitati perché decisamente più numerosi dei seguaci di altre religioni (nel 2014, i cristiani sono circa 2,3 miliardi, seguiti dai musulmani, che ammontano a 1,7 miliardi).
– Le zone di crescita. Il cristianesimo, infatti, è in ascesa in molte regioni che si trovano fuori dall’Occidente, nelle quali la sua espansione è percepita come una minaccia (è il caso, per esempio, della Cina, dove lo Stato è retto da un partito unico ed è ufficialmente ateo).
– Le etnie. In molte parti del mondo i cristiani costituiscono allo stesso tempo una minoranza religiosa ed etnica, con tutti i rischi che questa condizione comporta. Il caso dei gruppi chin e karen in Birmania è un esempio di come l’emarginazione possa rapidamente tramutarsi in persecuzione.
– L’identificazione con l’Occidente. È forse la causa principale. In molti paesi, infatti, l’equazione cristiano = filo-europeo o filo-americano alimenta l’odio verso una religione considerata ostile in quanto espressione di una cultura nemica. È il caso, ad esempio, dell’Iraq, dove – sottolinea Allen – «i fondamentalisti islamici talvolta hanno visto le Chiese cristiane come teste di ponte per l’influenza “crociata”, sebbene la cristianità in Iraq, in realtà, abbia radici storiche molto più profonde dell’islam».
Ultima questione, che resta sempre un po’ in sospeso, è quella relativa al silenzio che circonda le persecuzioni dei cristiani nel mondo. Perché se ne parla così poco, soprattutto entro i confini del cosiddetto Occidente? Allen prende in esame diversi fattori, ma due in particolare risultano decisivi: l’evidente ostilità nei confronti della religione (essa stessa considerata portatrice di intolleranza, tanto che molti laici tendono ad associare al cristianesimo concetti quali repressione – basti pensare all’Inquisizione o alle Crociate –, conservatorismo e ottusità) e la diffusa indifferenza rispetto a problematiche che paiono lontane, troppo distanti emotivamente oppure difficilmente svincolabili dall’immagine di singoli casi (come quello di Meriam) che inevitabilmente finiscono per essere considerati eccezionali. «I nuovi martiri – scrive al riguardo Allen – spesso vanno incontro alla morte in luoghi come Sri Lanka, Maldive e Sudan, che molti occidentali faticherebbero a individuare sulla carta geografica […]. La guerra contro i cristiani, inoltre, è incredibilmente complessa e difficile da interpretare. Non esiste un rimedio semplice, come lo è stato disinvestire dalle azioni sudafricane durante il regime dell’apartheid […]. Ogni situazione deve essere analizzata singolarmente; ciò che potrebbe funzionare per contrastare l’estremismo buddista in Bangladesh rischierebbe di non essere adatto per lottare contro i narcoterroristi in Colombia».
Occorre dunque prendere coscienza dell’esistenza di una vera e propria guerra globale che provoca la morte di migliaia di cristiani ogni anno. Non è tollerabile, infatti, che una società come la nostra non sia informata su uno sterminio di queste proporzioni, anche perché è del tutto evidente – e il caso di Meriam lo dimostra – che il primo passo da compiere per trovare una soluzione ai problemi è conoscerli. Sapere che in diverse aree del pianeta ci sono moltissimi martiri che sacrificano la propria vita in nome della fede vorrà pur dire qualcosa in un mondo che sembra aver perso ogni valore e pare chiudersi sempre più in se stesso! Si ricordi, del resto, che la parola martire significa testimone: e i testimoni necessitano di orecchie disposte ad ascoltare.

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