martedì 19 marzo 2013

Alfonso III, l'Estense che volle rinunciare al ducato per vestire il saio


(articolo apparso su Prima Pagina del 10 marzo 2013)

Figlio di Cesare d'Este e di Virginia de' Medici, Alfonso III nacque a Ferrara il 22 ottobre 1591, quando alla guida dello Stato estense era Alfonso II. Morto questi senza eredi legittimi nel 1597, il ducato passò al cugino Cesare (padre di Alfonso III), che si vide subito negare da papa Clemente VIII l'investitura di Ferrara e che, pertanto, fu costretto a trasferire la capitale a Modena. Pur avendo appena sei anni, Alfonso fu duramente colpito da queste confuse vicende. Il pontefice, infatti, nell'imporre a Cesare la cosiddetta Convenzione faentina – ossia la rinuncia a Ferrara –, pretese come garanzia che il figlio del duca fosse trattenuto a Faenza in qualità di ostaggio, in attesa che la corte estense completasse il suo trasferimento a Modena. La «prigionia» del piccolo Alfonso, benché di breve durata, dovette segnare profondamente il carattere del futuro sovrano, come del resto lascerebbero intendere alcune voci del tempo secondo le quali, a chi gli domandava il prezzo di una corona d'oro ricevuta in dono dal cardinal Aldobrandini – che lo teneva in custodia –, il giovane principe ereditario era solito rispondere: «Mi costa un ducato di Ferrara!».
Una volta liberato, Alfonso raggiunse la nuova capitale per ricongiungersi col padre, al quale – come provano le numerose lettere colme di rispetto e devozione che gli inviò in gioventù – era molto legato. Riabbracciato il suo erede, il duca volle che gli fosse impartita una severa educazione, incentrata essenzialmente sull'insegnamento delle materie classiche e della religione. Dotato, secondo le testimonianze, di acuta intelligenza, Alfonso crebbe pertanto accanto a validissimi precettori, coltivando con impegno approfonditi e variegati studi.
Anno di svolta nella sua vita fu il 1608. In ossequio alla logica delle alleanze tra casate, il 13 marzo, non ancora diciassettenne, Alfonso sposò a Torino Isabella di Savoia, figlia del duca Carlo Emanuele. Il matrimonio, seppur combinato, si sarebbe rivelato assai felice, forse grazie anche alle straordinarie qualità dell'infanta, che una fonte dell'epoca descrive come «la più pia, la più magnanima, la più religiosa principessa del suo secolo». L'esempio della moglie sabauda, da cui Alfonso ebbe ben quattordici figli, avrebbe avuto un peso decisivo nel condizionare le scelte del futuro duca estense.
Le doti di Isabella non poterono però impedire che, alle soglie dei vent'anni, Alfonso – come ha scritto il suo biografo Roberto Lecchini – fosse «travolto da una disastrosa crisi spirituale» e trascinato verso «una vera e propria decadenza morale». Il giovane principe, che «era entrato in dimestichezza con certi tipi spregiudicati» il cui «modo di pensare e di credere era assai più vicino alle dottrine di Machiavelli che al Vangelo di Cristo», non tardò a farsi dei nemici, «accecato dalla smaniosa brama di elevare sempre più in alto l'onore della famiglia». Anche nei confronti del padre assunse col tempo un atteggiamento insofferente: criticava con decisione la sua prudenza politica, pretendeva di condizionarne le decisioni – come quando riuscì a impedire, nel 1610, la vendita di Soliera – e mostrava senza ritegno di bramare con spregiudicatezza la successione. Accecato dalla presunzione, giunse perfino a soprannominare il genitore «Padre Eterno», alludendo al fatto che non voleva saperne di morire.
Un episodio, in particolare, durante questa fase di «eclissi morale», dovette turbare profondamente il principe Alfonso: la violenta disputa col conte Ercole Pepoli, destinata a concludersi in tragedia. Quest'ultimo rivendicava infatti, contro il parere del futuro duca, alcuni territori del Ferrarese appartenuti all'estinta famiglia Contrari, con cui era imparentato. Ma l'Alfonso di quei tempi non era certo un uomo disposto a fare concessioni; e una sera di dicembre del 1617 diede ordine a tre sicari di assassinare il Pepoli. L'omicidio ebbe drammatiche conseguenze. I Pepoli, assetati di vendetta, pianificarono più volte di attentare alla vita di Alfonso, senza tuttavia riuscire nel loro intento. Per tutta risposta furono emesse dal tribunale di Modena diverse sentenze capitali, anche se – precisa Lecchini – «la sanguinaria giustizia non poté aver tra le mani che quattro disgraziati su cui scaricarsi». In pratica, l'omicidio del conte Ercole da una parte e gli attentati contro Alfonso dall'altra rimasero sostanzialmente impuniti.
La disputa col Pepoli non fu comunque l'unica vicenda controversa nella vita di Alfonso. Tra il 1626 e il 1628 il principe perse prima la moglie – stroncata da un'incurabile malattia dopo aver dato alla luce l'ultima figlia Anna Beatrice – poi il padre, che si spense l'11 dicembre 1628, dopo trent'anni di governo. La morte di Isabella, in particolare, destò grande impressione in Alfonso, che reagì al lutto ritirandosi in meditazione. Secondo gli storici fu proprio la perdita della moglie – la quale poco prima di spirare aveva pregato il marito di riportare la pace nel ducato – a spingere il futuro duca verso la redenzione. Egli comprese che solo abbracciando una rigorosa vita religiosa avrebbe placato i suoi tormenti e prese la decisione di vestire, prima o poi, il saio da cappuccino.
Solo con la morte di Cesare, tuttavia, Alfonso ritenne fosse giunto il momento opportuno per comunicare la propria decisione. Aveva voluto assistere il padre negli ultimi travagliati anni del suo governo, ma ora, divenuto egli stesso duca, non aveva più alcun ostacolo davanti a sé. Resse perciò lo Stato estense per soli sette mesi, dopodiché, il 24 luglio 1629, abdicò in favore del primogenito Francesco, abbandonando per sempre la vita di corte. Significativo atto della sua breve esperienza politica fu una lettera al figlio in cui chiedeva – di fatto ordinava – che fossero revocate le taglie pendenti sui Pepoli.
Ottenuto da papa Urbano VIII il privilegio di accorciare i tempi del noviziato, Alfonso lasciò il ducato per dirigersi in Tirolo. Giunto a destinazione, l'8 settembre 1629 entrò nel convento dei cappuccini di Merano, assumendo il nome di frate Giambattista da Modena. Meno di quattro mesi dopo, per espressa volontà del pontefice, fu ordinato sacerdote.
Immersosi negli studi di teologia, accolse con sgomento la notizia che la peste, nel 1630, aveva invaso anche il ducato estense. Senza indugio partì alla volta di Modena per prestare assistenza ai moribondi, ma – scrive Lecchini –, giunto nel Ferrarese, non poté proseguire oltre poiché il figlio Francesco – per evitare che la presenza del frate nella capitale facesse risaltare l'assenza dello stesso duca, precauzionalmente rifugiatosi nel Reggiano – «gli sollecitò un ordine perentorio del p. generale di far ritorno immediatamente in Tirolo». Obbedendo senza esitare, padre Giambattista si imbarcò quindi sul Po per dirigersi via mare a Trieste. Di lì partì successivamente alla volta di Gorizia (dove fondò un monastero delle clarisse), per poi raggiungere, al fine di dedicarsi alla predicazione, Innsbruck e Vienna.
A Modena fece ritorno nel 1632, prodigandosi affinché il figlio venisse in soccorso dei più bisognosi. Memorabile rimase una sua predica tenuta in duomo il 29 gennaio 1633, nella quale l'ex duca raccomandava, tra le altre cose, l'elemosina, che «libera da ogni peccato e dalla morte e non permette che l'anima se ne vada nelle tenebre», e la carità, che «spezza le catene dei peccati, dirada le tenebre, estingue il fuoco».
Si cadrebbe tuttavia in errore presentando padre Giambattista esclusivamente nelle vesti di mite predicatore. Al contrario, egli diede prova a volte di autentica pertinacia nello svolgimento del suo apostolato, al punto che – afferma il Muratori – il suo zelo «talora ad alcuni parve anche troppo impetuoso». In particolare, la conversione degli Ebrei e l'assistenza «alle fanciulle pericolanti» e ai carcerati furono per il frate un vero e proprio cruccio.
Dopo l'abdicazione, tuttavia, Alfonso a Modena si sentiva di fatto un pesce fuor d'acqua. Più volte manifestò il desiderio di abbandonare definitivamente la movimentata vita della capitale, finché nel 1639 non si risolse a trasferirsi nel convento di Castelnuovo Garfagnana, che egli stesso aveva voluto fondare. Tra i monti il frate – che pure di tanto in tanto si recava in città per proseguire la sua opera di assistenza – diceva di voler ricercare quella pace che sola gli avrebbe consentito di prepararsi al grande passo della morte, che oramai sentiva vicino. E infatti non si ingannava: colto da forti febbri, si spense il 24 maggio 1644, all'età di 52 anni. La sua travagliata esperienza di vita – che uno studio di fine Ottocento accostava per similitudine a quella del fra Cristoforo manzoniano – si concludeva nella mesta solitudine che egli, legittimo successore del primo duca di Modena capitale, aveva preferito allo sfarzo della corte.

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