martedì 26 marzo 2013

Odoardo Focherini, un «Giusto fra le Nazioni»: il libro di Giorgio Vecchio, prima biografia completa del martire carpigiano

(articolo apparso su Prima Pagina del 17 marzo 2013)

Quella di «Giusto fra le Nazioni» è un'onorificenza che viene conferita da Yad Vashem (ente nazionale israeliano incaricato di preservare la memoria delle vittime e degli eroi della Shoah) ai non ebrei che, durante le persecuzioni naziste, si siano prodigati a rischio della propria vita per mettere in salvo anche un solo ebreo. A Odoardo Focherini questo riconoscimento fu attribuito nel 1969, 25 anni dopo la tragica morte nel lager di Hersbruck. Oggi, a più di un secolo dalla nascita, il professor Giorgio Vecchio ci offre la prima biografia completa di Focherini (G. Vecchio, Un «Giusto fra le Nazioni»: Odoardo Focherini (1907-1944), EDB, Bologna 2012), che egli definisce un uomo «normale» capace di compiere gesti eroici «anormali» con il solo fine di adempiere il proprio dovere di cristiano.
Odoardo Focherini nacque a Carpi il 6 giugno 1907 da Tobia, commerciante originario della Val di Sole, e Maria Bertacchini. Rimasto orfano di madre nel 1909, il piccolo Odoardo ebbe la fortuna di trovare in Teresa Merighi, seconda moglie del padre, una matrigna amorevole, che si preoccupò per di più di impartire al figlio una rigorosa educazione religiosa. Fu proprio Teresa Merighi a propiziare l'incontro di Focherini con Zeno Saltini, presidente della Federazione giovanile cattolica diocesana di Carpi, nonché futuro fondatore, nel dopoguerra, della comunità di Nomadelfia. Al suo fianco Focherini compì i primi passi entro le strutture associative incardinate nell'Azione Cattolica, finché nel 1924 non divenne segretario della Federazione giovanile, propugnando l'«idea di una fede cristiana vissuta con convinzione e praticata nella vita quotidiana, fino alla coraggiosa testimonianza pubblica».
Il suo impegno accanto a Saltini e al di lui assistente don Armando Benatti si rivolse soprattutto all'educazione dei più giovani, attraverso la promozione di iniziative editoriali – degno di nota il periodico per ragazzi «L'Aspirante», sorto nel 1924 e presto destinato a diventare organo ufficiale, a livello nazionale, della Gioventù cattolica –, la costituzione di un'«Opera Realina» – finalizzata a coordinare l'apostolato e le attività dei giovani cattolici frequentanti l'oratorio dedicato al beato Bernardino Realino – e la formazione di un reparto carpigiano di Esploratori cattolici.
Chiamato nel 1927 a svolgere il servizio di leva, al rientro a Carpi Focherini riprese il suo impegno nell'associazionismo cattolico, assumendo la guida della Federazione giovanile. «Due – scrive Vecchio – sono gli avvenimenti che caratterizzano la presidenza Focherini in questo suo primo mandato e risalgono entrambi al 1929»: la celebrazione del I Congresso eucaristico diocesano e l'udienza da papa Pio XI. In generale, il bilancio dei primi due anni di presidenza (che si sarebbe protratta fino al 1934) fu positivo, contraddistinto dall'aumento del numero dei soci e dall'apertura di nuovi circoli parrocchiali.
Gli anni Trenta segnarono una svolta nella vita privata e professionale di Focherini. Il 1930 fu l'anno del matrimonio con Maria Marchesi, da cui sarebbero nati ben sette figli. L'unione, scrive Vecchio, fu «tutt'altro che "di maniera"», fondata «sulla preghiera, la fede e l'amore quotidiano».
Ma anche sul versante lavorativo si profilavano drastici cambiamenti. Abbandonata infatti la bottega paterna, nel 1934 Focherini fu assunto dall'agenzia di Modena della Società cattolica di assicurazione, impiego che gli garantì una certa sicurezza economica con cui far fronte al mantenimento della numerosa famiglia e, al contempo, gli consentì di tenere vivo il suo impegno in una AC sempre più ostacolata dalle ingerenze del regime. Gli anni Trenta, infatti, furono caratterizzati anche dallo scontro tra Chiesa e fascismo, il quale pretendeva di avocare a sé il totale controllo dell'educazione giovanile. Esito di questa contrapposizione fu dapprima il compromesso del 1931 – in base al quale l'AC, definita come «essenzialmente diocesana», doveva ribadire la sua apoliticità e rinunciare a svolgere, in ambito giovanile, qualsiasi attività che non avesse esclusiva finalità religiosa –, seguito, nel 1940, dalla riorganizzazione statutaria della stessa AC, che veniva di fatto clericalizzata escludendo i dirigenti laici dai posti di responsabilità gestionale.
Focherini visse sulla propria pelle queste vicende. In particolare fu costretto ad abbandonare la carica di presidente della giunta diocesana (che deteneva dal 1936), dedicando buona parte del tempo lasciato libero dal lavoro alla gestione dell'«Avvenire d'Italia», giornale del cui consiglio di amministrazione entrò a far parte nel 1939. I suoi articoli – scrive Vecchio – «riflettono la sua attività e la sua personalità, oltre che lo spirito del tempo, che si esprime attraverso uno stile ricco di aggettivi roboanti ed entusiastici, soprattutto quando si deve parlare delle autorità ecclesiastiche e civili».
Trasferitosi nel 1940 a Mirandola, Focherini affrontò i primi mesi di guerra immerso nel clima di forte dissenso manifestato dai cattolici italiani nei confronti della politica nazista. Di fronte alla tragedia del conflitto, a differenza di molti che vollero evitare qualsiasi coinvolgimento, egli ritenne però suo precipuo dovere di cristiano adoperarsi per alleviare le sofferenze dei più bisognosi. Tra questi, naturalmente, molti erano ebrei, soprattutto quando, dopo l'8 settembre del 1943, «si passa dalla fase della "persecuzione dei diritti" a quella della "persecuzione della vita"».
L'impegno umanitario di Focherini nei confronti di questi ultimi – reso possibile da numerosi appoggi e contatti, su tutti quello di don Dante Sala – era organizzato in modo tale da delineare un preciso «percorso di salvataggio, lungo la direttrice Modena-Milano-Como-Cernobbio-Svizzera». Il duro compito che Focherini volle assumersi è schematicamente diviso da Vecchio in tre incombenze fondamentali: 1) «accogliere le richieste dei perseguitati»; 2) «provvedere alla preparazione di documenti falsi» e «assegnare a ogni fuggiasco quel che serve per sopravvivere nel pericoloso tragitto verso la salvezza»; 3) «essere fisicamente presente nei momenti angosciosi della partenza, assicurando a ciascuno un conforto che non è solo materiale, ma che è fatto di sorrisi, di battute, raccomandazioni, sostegno psicologico e spirituale».
Favorire la fuga di ebrei – secondo i dati forniti da don Sala, in tutto 105 tra il settembre e il dicembre del 1943 – esponeva ovviamente a tremendi rischi. Focherini ne era consapevole, ma, pur agendo con la dovuta prudenza, non poté impedire che cominciassero a sorgere sospetti sulla sua condotta. Verosimilmente divenuto oggetto di delazioni, fu arrestato l'11 marzo 1944 e trasferito, due giorni dopo, nel carcere di S. Giovanni in Monte a Bologna.
Dalle lettere che riuscì clandestinamente a far consegnare all'amico Umberto Sacchetti – da poco assunto dall'amministrazione de «L'Avvenire d'Italia» – emergono chiaramente la preoccupazione per le sorti della famiglia e la speranza di riuscire a dimostrare la propria innocenza, se non grazie all'intervento di influenti personalità del mondo cattolico, quantomeno per l'assenza di prove concrete a suo carico. Tuttavia, presto Focherini dovette lasciar cadere ogni illusione. Dopo tre mesi e mezzo di reclusione a Bologna fu infatti trasferito nel campo di Fossoli, preludio alla deportazione in Germania. «Caratteristica di un campo come quello di Fossoli – spiega al riguardo Vecchio – è di accogliere nuovi prigionieri [...] fino a raggiungere un numero adeguato per poter "riempire" un treno e farlo partire con destinazione Auschwitz».
Focherini non fu però condotto nel famigerato lager polacco. Il 5 agosto 1944 partì alla volta di Bolzano, dove venne internato in un campo in cui ai prigionieri era imposto di «lavorare in condizioni quanto mai dure». Esattamente un mese dopo lasciò definitivamente l'Italia: la destinazione era la cittadina tedesca di Flossenbürg, sede di un grande Konzentrationslager da cui dipendevano ben 97 sottocampi. In uno di questi, a Hersbruck, Focherini trovò la morte il 27 dicembre 1944, stroncato dalle disumane condizioni di lavoro.
Nel 1969, come anticipato, fu riconosciuto «Giusto fra le Nazioni», onorificenza che – precisa Vecchio – non intende ricordare «un individuo "perfetto", senza macchia e paura per tutta la vita, ma soltanto colui (o colei) che in un preciso momento ha saputo rischiare e aiutare il suo prossimo in pericolo». In questo senso, dunque, Odoardo Focherini fu un uomo «Giusto»; poiché, di fronte all'abominio del fanatismo nazista, non esitò a sacrificare se stesso, sorretto da una fede che non vacillò nemmeno durante la tragica detenzione. E in questo senso va inquadrata la decisione della Chiesa di dare avvio, a partire dal 1994, alla procedura per la causa di beatificazione.

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martedì 19 marzo 2013

Alfonso III, l'Estense che volle rinunciare al ducato per vestire il saio


(articolo apparso su Prima Pagina del 10 marzo 2013)

Figlio di Cesare d'Este e di Virginia de' Medici, Alfonso III nacque a Ferrara il 22 ottobre 1591, quando alla guida dello Stato estense era Alfonso II. Morto questi senza eredi legittimi nel 1597, il ducato passò al cugino Cesare (padre di Alfonso III), che si vide subito negare da papa Clemente VIII l'investitura di Ferrara e che, pertanto, fu costretto a trasferire la capitale a Modena. Pur avendo appena sei anni, Alfonso fu duramente colpito da queste confuse vicende. Il pontefice, infatti, nell'imporre a Cesare la cosiddetta Convenzione faentina – ossia la rinuncia a Ferrara –, pretese come garanzia che il figlio del duca fosse trattenuto a Faenza in qualità di ostaggio, in attesa che la corte estense completasse il suo trasferimento a Modena. La «prigionia» del piccolo Alfonso, benché di breve durata, dovette segnare profondamente il carattere del futuro sovrano, come del resto lascerebbero intendere alcune voci del tempo secondo le quali, a chi gli domandava il prezzo di una corona d'oro ricevuta in dono dal cardinal Aldobrandini – che lo teneva in custodia –, il giovane principe ereditario era solito rispondere: «Mi costa un ducato di Ferrara!».
Una volta liberato, Alfonso raggiunse la nuova capitale per ricongiungersi col padre, al quale – come provano le numerose lettere colme di rispetto e devozione che gli inviò in gioventù – era molto legato. Riabbracciato il suo erede, il duca volle che gli fosse impartita una severa educazione, incentrata essenzialmente sull'insegnamento delle materie classiche e della religione. Dotato, secondo le testimonianze, di acuta intelligenza, Alfonso crebbe pertanto accanto a validissimi precettori, coltivando con impegno approfonditi e variegati studi.
Anno di svolta nella sua vita fu il 1608. In ossequio alla logica delle alleanze tra casate, il 13 marzo, non ancora diciassettenne, Alfonso sposò a Torino Isabella di Savoia, figlia del duca Carlo Emanuele. Il matrimonio, seppur combinato, si sarebbe rivelato assai felice, forse grazie anche alle straordinarie qualità dell'infanta, che una fonte dell'epoca descrive come «la più pia, la più magnanima, la più religiosa principessa del suo secolo». L'esempio della moglie sabauda, da cui Alfonso ebbe ben quattordici figli, avrebbe avuto un peso decisivo nel condizionare le scelte del futuro duca estense.
Le doti di Isabella non poterono però impedire che, alle soglie dei vent'anni, Alfonso – come ha scritto il suo biografo Roberto Lecchini – fosse «travolto da una disastrosa crisi spirituale» e trascinato verso «una vera e propria decadenza morale». Il giovane principe, che «era entrato in dimestichezza con certi tipi spregiudicati» il cui «modo di pensare e di credere era assai più vicino alle dottrine di Machiavelli che al Vangelo di Cristo», non tardò a farsi dei nemici, «accecato dalla smaniosa brama di elevare sempre più in alto l'onore della famiglia». Anche nei confronti del padre assunse col tempo un atteggiamento insofferente: criticava con decisione la sua prudenza politica, pretendeva di condizionarne le decisioni – come quando riuscì a impedire, nel 1610, la vendita di Soliera – e mostrava senza ritegno di bramare con spregiudicatezza la successione. Accecato dalla presunzione, giunse perfino a soprannominare il genitore «Padre Eterno», alludendo al fatto che non voleva saperne di morire.
Un episodio, in particolare, durante questa fase di «eclissi morale», dovette turbare profondamente il principe Alfonso: la violenta disputa col conte Ercole Pepoli, destinata a concludersi in tragedia. Quest'ultimo rivendicava infatti, contro il parere del futuro duca, alcuni territori del Ferrarese appartenuti all'estinta famiglia Contrari, con cui era imparentato. Ma l'Alfonso di quei tempi non era certo un uomo disposto a fare concessioni; e una sera di dicembre del 1617 diede ordine a tre sicari di assassinare il Pepoli. L'omicidio ebbe drammatiche conseguenze. I Pepoli, assetati di vendetta, pianificarono più volte di attentare alla vita di Alfonso, senza tuttavia riuscire nel loro intento. Per tutta risposta furono emesse dal tribunale di Modena diverse sentenze capitali, anche se – precisa Lecchini – «la sanguinaria giustizia non poté aver tra le mani che quattro disgraziati su cui scaricarsi». In pratica, l'omicidio del conte Ercole da una parte e gli attentati contro Alfonso dall'altra rimasero sostanzialmente impuniti.
La disputa col Pepoli non fu comunque l'unica vicenda controversa nella vita di Alfonso. Tra il 1626 e il 1628 il principe perse prima la moglie – stroncata da un'incurabile malattia dopo aver dato alla luce l'ultima figlia Anna Beatrice – poi il padre, che si spense l'11 dicembre 1628, dopo trent'anni di governo. La morte di Isabella, in particolare, destò grande impressione in Alfonso, che reagì al lutto ritirandosi in meditazione. Secondo gli storici fu proprio la perdita della moglie – la quale poco prima di spirare aveva pregato il marito di riportare la pace nel ducato – a spingere il futuro duca verso la redenzione. Egli comprese che solo abbracciando una rigorosa vita religiosa avrebbe placato i suoi tormenti e prese la decisione di vestire, prima o poi, il saio da cappuccino.
Solo con la morte di Cesare, tuttavia, Alfonso ritenne fosse giunto il momento opportuno per comunicare la propria decisione. Aveva voluto assistere il padre negli ultimi travagliati anni del suo governo, ma ora, divenuto egli stesso duca, non aveva più alcun ostacolo davanti a sé. Resse perciò lo Stato estense per soli sette mesi, dopodiché, il 24 luglio 1629, abdicò in favore del primogenito Francesco, abbandonando per sempre la vita di corte. Significativo atto della sua breve esperienza politica fu una lettera al figlio in cui chiedeva – di fatto ordinava – che fossero revocate le taglie pendenti sui Pepoli.
Ottenuto da papa Urbano VIII il privilegio di accorciare i tempi del noviziato, Alfonso lasciò il ducato per dirigersi in Tirolo. Giunto a destinazione, l'8 settembre 1629 entrò nel convento dei cappuccini di Merano, assumendo il nome di frate Giambattista da Modena. Meno di quattro mesi dopo, per espressa volontà del pontefice, fu ordinato sacerdote.
Immersosi negli studi di teologia, accolse con sgomento la notizia che la peste, nel 1630, aveva invaso anche il ducato estense. Senza indugio partì alla volta di Modena per prestare assistenza ai moribondi, ma – scrive Lecchini –, giunto nel Ferrarese, non poté proseguire oltre poiché il figlio Francesco – per evitare che la presenza del frate nella capitale facesse risaltare l'assenza dello stesso duca, precauzionalmente rifugiatosi nel Reggiano – «gli sollecitò un ordine perentorio del p. generale di far ritorno immediatamente in Tirolo». Obbedendo senza esitare, padre Giambattista si imbarcò quindi sul Po per dirigersi via mare a Trieste. Di lì partì successivamente alla volta di Gorizia (dove fondò un monastero delle clarisse), per poi raggiungere, al fine di dedicarsi alla predicazione, Innsbruck e Vienna.
A Modena fece ritorno nel 1632, prodigandosi affinché il figlio venisse in soccorso dei più bisognosi. Memorabile rimase una sua predica tenuta in duomo il 29 gennaio 1633, nella quale l'ex duca raccomandava, tra le altre cose, l'elemosina, che «libera da ogni peccato e dalla morte e non permette che l'anima se ne vada nelle tenebre», e la carità, che «spezza le catene dei peccati, dirada le tenebre, estingue il fuoco».
Si cadrebbe tuttavia in errore presentando padre Giambattista esclusivamente nelle vesti di mite predicatore. Al contrario, egli diede prova a volte di autentica pertinacia nello svolgimento del suo apostolato, al punto che – afferma il Muratori – il suo zelo «talora ad alcuni parve anche troppo impetuoso». In particolare, la conversione degli Ebrei e l'assistenza «alle fanciulle pericolanti» e ai carcerati furono per il frate un vero e proprio cruccio.
Dopo l'abdicazione, tuttavia, Alfonso a Modena si sentiva di fatto un pesce fuor d'acqua. Più volte manifestò il desiderio di abbandonare definitivamente la movimentata vita della capitale, finché nel 1639 non si risolse a trasferirsi nel convento di Castelnuovo Garfagnana, che egli stesso aveva voluto fondare. Tra i monti il frate – che pure di tanto in tanto si recava in città per proseguire la sua opera di assistenza – diceva di voler ricercare quella pace che sola gli avrebbe consentito di prepararsi al grande passo della morte, che oramai sentiva vicino. E infatti non si ingannava: colto da forti febbri, si spense il 24 maggio 1644, all'età di 52 anni. La sua travagliata esperienza di vita – che uno studio di fine Ottocento accostava per similitudine a quella del fra Cristoforo manzoniano – si concludeva nella mesta solitudine che egli, legittimo successore del primo duca di Modena capitale, aveva preferito allo sfarzo della corte.

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lunedì 11 marzo 2013

Francesco Luigi Ferrari, il popolare che educò i cattolici alla politica

(articolo apparso su Prima Pagina del 3 marzo 2013)


Anni dopo la sua morte, di Francesco Luigi Ferrari Sturzo raccontò che «un modenese della DC non sapeva chi fosse e che cosa avesse fatto». Eppure Ferrari era stato un importante esponente del movimento cattolico del capoluogo emiliano, oltre che una personalità di spicco in seno al Partito popolare. Anche, ma di certo non solo, per questo, la sua riflessione politica, probabilmente nota quasi esclusivamente a chi – per professione o per interesse – coltiva abitualmente studi storici, meriterebbe un più convinto sforzo divulgativo.
Ferrari nacque a Modena il 31 ottobre 1889. Compì i primi studi tra Piacenza, Torino e Modena – a causa dei continui spostamenti che il padre, giornalista, imponeva all’intera famiglia –, finché nel 1907 non si iscrisse alla facoltà di ingegneria della sua città. Due anni dopo passò a giurisprudenza, iniziando un percorso di studi che, dopo la laurea nel 1913, l’avrebbe portato ad intraprendere una brillante carriera da avvocato.
Gli anni dell’università furono decisivi per la formazione politica di Ferrari. Egli entrò presto in contatto con le principali associazioni cattoliche modenesi e nel 1908 fondò il circolo Ludovico Antonio Muratori, sezione locale della FUCI, i cui membri, fortemente condizionati dagli ideali della democrazia cristiana, svolgevano attività di propaganda con occhio attento alla questione sociale.
L’opera di Ferrari, molto attivo anche in ambito sindacale, ricevette immediati apprezzamenti a livello nazionale, tanto che nel 1910 lo studente modenese divenne presidente della FUCI. Sotto la sua direzione la Federazione universitaria cattolica pose le basi per un proficuo dialogo con lo Stato italiano, accostandosi ai valori laici della democrazia. I progetti di Ferrari, volti anche a combattere l’eccessiva clericalizzazione delle associazioni cattoliche, presto si scontrarono tuttavia con la gerarchia ecclesiastica, la quale, accusandolo – per bocca del vescovo di Piacenza – esplicitamente di modernismo, di fatto lo indusse, nel 1912, a rassegnare le dimissioni da presidente della FUCI.
Nel frattempo anche sul versante sindacale erano sorte complicazioni. L'Ufficio del Lavoro – centro di coordinamento dell'attività sindacale modenese di matrice cattolica che Ferrari aveva contribuito a fondare nel 1909 – incontrava infatti grosse difficoltà di fronte alle efficienti organizzazioni socialiste, palesando quello che, a parere del giovane studente, costituiva il vero limite dell'associazionismo cattolico: la mancanza di un partito in grado di tradurre in energia politica l'impegno profuso nel sociale.
In quest'ottica, ritenendo un dovere partecipare alla vita pubblica, nel 1914 lo stesso Ferrari si candidò – con successo – a consigliere comunale, avanzando diverse proposte di stampo riformista. Lo scoppio della guerra, tuttavia, interruppe bruscamente questa esperienza amministrativa, anche perché Ferrari, interventista di ideali patriottici, nel giugno del 1915 partì per il fronte.
Rientrato a Modena nel 1919, l'ex presidente della FUCI riprese il suo posto in consiglio comunale e aderì con convinzione al PPI di don Sturzo, prodigandosi per dar vita a sezioni del partito in tutta la provincia. Il suo impegno politico, volto essenzialmente a combattere le piaghe dell'inflazione e della disoccupazione, fu contrastato tanto dai cattolici intransigenti – critici rispetto all'aconfessionalità del PPI – quanto dai socialisti, che vedevano nei popolari di sinistra dei potenziali pericolosi rivali. Fatto oggetto di violenti attacchi (alcuni «briganti rossi», come li definì il periodico cattolico «Il Frignano», giunsero persino a bastonarlo), Ferrari si presentò comunque come candidato alle amministrative del 1920, riuscendo eletto consigliere provinciale su  posizioni che si discostavano nettamente da quelle, prevalenti, dei popolari conservatori.
Sempre più isolato all'interno del movimento cattolico modenese, Ferrari ottenne invece l'appoggio degli esponenti più in vista della sinistra popolare italiana, il che gli consentì di mettersi in luce durante il terzo congresso del PPI, tenutosi a Venezia nell'ottobre del 1921. In quell'occasione egli stigmatizzò i compromessi politici con le forze liberali, suggerendo di subordinare l'accettazione di qualsiasi alleanza elettorale all'impegno concreto per la realizzazione del programma sociale delineato da Sturzo. Solo su queste basi – riteneva – il partito poteva «assumere direttamente la responsabilità del potere».
La riflessione politica di Ferrari, apprezzata nell'assise veneziana, conteneva poi un importante elemento di novità: il partito, fermo restando il veto su qualsiasi proposta di collaborazione che si discostasse dal programma sturziano, se non aveva margini di trattativa con il nascente fascismo, non doveva assumere, a suo parere, un atteggiamento pregiudizialmente ostile ad un'alleanza che guardasse a sinistra. La proposta – comunque destinata a cadere nel vuoto a causa sia della tradizionale diffidenza dei socialisti, sia, soprattutto, dello scetticismo con cui venne accolta dalla destra clericale – rifletteva la ferma convinzione di Ferrari che i compromessi clericali con il duce avrebbero trascinato il PPI alla rovina. Convinzione che, dopo la marcia su Roma, fu all'origine delle proteste – affidate in particolare alle pagine de «Il Domani d'Italia», rivista che Ferrari aveva contribuito a fondare con alcuni amici – con cui l'avvocato modenese accolse la decisione del gruppo parlamentare popolare di appoggiare il primo governo Mussolini. 
Rivendicando l'autonomia del PPI al congresso di Torino del 1923, Ferrari sperava inoltre di smascherare il doppio gioco del duce, che pareva disposto a fare concessioni alla Santa Sede in cambio del ritiro dell'appoggio del Vaticano a don Sturzo. E quanto il giovane modenese, raccomandando prudenza nelle trattative col regime, avesse colpito nel segno fu reso evidente poco dopo dall'iniziativa dello stesso Mussolini, che minacciò ripercussioni anticlericali in caso di mancato appoggio popolare a quella legge elettorale Acerbo che, di fatto, avrebbe ridotto al minimo i margini di manovra del PPI.
I tempi, tuttavia, non erano ancora maturi per una completa comprensione delle riflessioni di Ferrari. Dopo il delitto Matteotti egli diede nuovamente prova di lungimiranza giudicando inconcludente la strategia aventiniana, ma non poté andare oltre una condanna morale del regime. Consolidatasi la dittatura, intuì infine che, al di là delle sterili discussioni sulle questioni legalitarie, per minare il potere di Mussolini gli antifascisti avrebbero dovuto pianificare un lungo programma di educazione democratica del popolo italiano.
Di questi temi Ferrari parlò in occasione del congresso di Roma del giugno 1925, ultimo atto di rilievo della sua carriera politica in Italia. Di lì a un anno, infatti, divenuto bersaglio di ripetuti attentati squadristici, prese la via dell'esilio, stabilendosi a Lovanio, in Belgio.
Nella città fiamminga Ferrari conseguì nel 1928 il dottorato in scienze sociali, discutendo una tesi intitolata Le régime fasciste italien, attenta riflessione sulle condizioni storiche che avevano permesso a Mussolini di instaurare la dittatura. Impossibilitato, a causa del diretto intervento dell'ambasciatore italiano a Bruxelles, a proseguire la carriera accademica, si avvicinò a Gaetano Salvemini – collaborando al suo progetto di ricerca sulla storia contemporanea – e diede vita al Comité Italien de Bruxelles, centro di studi politico-sociali.
Fortemente critico nei confronti dei Patti Lateranensi – giudicati un compromesso politico con un governo, quello fascista, la cui concezione dello Stato era inconciliabile con quella cattolica –, Ferrari si prodigò per tenere viva l'identità dei popolari, soprattutto dopo che il Concordato, proibendo ai preti di svolgere attività politica, aveva di fatto messo Sturzo fuori causa. Con alacre impegno organizzò un segretariato del PPI all'estero, collaborò a numerose riviste – fondandone una sua intitolata Res Publica – e strinse profondi legami con importanti esponenti dell'antifascismo, come Carlo Rosselli e Lauro De Bosis. Visse infine una significativa esperienza all'interno del Segretariato internazionale dei partiti democratici di ispirazione cristiana, che volle sensibilizzare rispetto alla minaccia fascista anche in prospettiva europea.
Trasferitosi a Parigi, Ferrari trascorse gli ultimi anni della sua vita come direttore di una casa editrice. Morì il 2 marzo 1933, a soli 43 anni, a causa del riacutizzarsi di un trauma polmonare provocato dalle percosse subite in passato. Ai cattolici, cui aveva voluto tramandare una sofferta e lucida analisi della realtà contemporanea, lasciava in eredità un sincero anelito di libertà.

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lunedì 4 marzo 2013

«In campo per la verità, per la moralità, per la fede»: l'esperienza politica de «Il Frignano», settimanale cattolico dell'Alto Modenese

(articolo apparso su Prima Pagina del 24 febbraio 2013)

«Il Frignano» vide la luce il 30 marzo del 1913. Ne coordinò la realizzazione, assumendone direttamente la direzione, Alessandro Coppi, all’epoca giovane studente di giurisprudenza vicino alla corrente democratico-cristiana.
Coppi nacque a Modena il 9 luglio 1894. Dal padre, che prima di proporsi come candidato cattolico alle elezioni del 1913 era stato dirigente dell’Opera dei Congressi e consigliere comunale a Modena, Alessandro ereditò una sentita passione per l’impegno sociale, tanto che sin dagli anni dell’università si segnalò per l’attività svolta all’interno delle principali associazioni cattoliche della provincia.
La prima occasione di mettersi in luce giunse per Coppi durante il III Convegno cattolico del Frignano (ottobre 1912): in quella circostanza il giovane studente tenne con successo una relazione sull’«Azione giovanile» – nella quale avanzò la proposta di costituire circoli destinati all’educazione delle nuove generazioni – e partecipò con grande interesse alla discussione sorta in merito all’opportunità di lanciare un settimanale cattolico nell’Alto Modenese. Meno di un anno dopo nacque «Il Frignano», che sin dal primo numero manifestò la volontà di far leva sul tradizionale radicamento dei valori cristiani nella regione appenninica, come esplicitato dal motto «Prisca Fides» posto in evidenza sotto la testata.
Coppi non aveva in mente solo un periodico d’informazione. Il suo settimanale voleva essere accessibile e di facile lettura, ma allo stesso tempo intendeva approfondire con scrupolo i problemi concreti della popolazione montanara e, possibilmente, portare un po’ di cristiano conforto ai più deboli.
Il direttore, che – come si leggeva nel primo numero del settimanale – entrava «in campo per la verità, per la moralità, per la fede», si augurava  di stimolare i cattolici affinché si scuotessero dalla loro tradizionale apatia. Era tempo che anche a Modena (e in particolare in una regione «bianca» come il Frignano) essi acquisissero spirito d’iniziativa, maggiore senso di responsabilità, e percepissero come un dovere morale, prima ancora che religioso, l’impegno in favore dei più bisognosi. La democrazia cristiana costituiva per Coppi un faro in grado di illuminare la retta via, l’idea rivoluzionaria che avrebbe permesso ai cattolici di giocare un ruolo da protagonisti in quel mondo moderno così assurdamente respinto. Queste idee, di certo non ancora diffuse in seno a un movimento cattolico modenese arroccato su posizioni conservatrici, furono alla base del grande successo riscosso dal giornale, che, ricevuta l'immediata approvazione del vescovo Natale Bruni, in breve tempo raggiunse la tiratura di 2.000 copie.
Dopo appena un anno di attività «Il Frignano» dovette confrontarsi con il problema della guerra. Nei primi mesi furono largamente assecondati i sentimenti di contrarietà al conflitto nutriti dalla maggior parte della popolazione; successivamente, anche come conseguenza della partenza di Coppi per il fronte, il settimanale finì però per assumere un deciso atteggiamento patriottico di sostegno ai combattenti. Coppi stesso, collaborando con numerose lettere inviate ai colleghi rimasti al giornale, contribuì a sensibilizzare le coscienze dei suoi concittadini rispetto alla drammaticità degli eventi provocati dall’«inutile strage». Significativo fu l’ampio spazio che, per tutto il corso del conflitto, fu riservato alla pubblicazione di lettere dal fronte, attraverso le quali si cercava di creare un contatto tra i soldati e le famiglie che attendevano ansiose tra i monti.
Rientrato a Modena verso la fine del 1919, Coppi riprese la direzione del «Frignano», aderì immediatamente al PPI e, nell’aprile del 1920, venne eletto segretario provinciale del partito. Il giornale costituì di fatto un importante strumento – accanto ai convegni ed ai congressi, di cui Coppi fu instancabile animatore – per la propaganda in favore dei popolari, assumendo, specialmente alla vigilia delle elezioni politiche del 1919, un tono a tratti persino mordace. Alla guida del Partito popolare Coppi tentò – come ha scritto il suo biografo Paolo Trionfini – di «mantenere orientata la rotta lontano dagli scogli dove si veniva infrangendo il mito liberale» e intraprese una dura battaglia contro i socialisti, che nel dopoguerra avevano portato la competizione sul terreno delle dimostrazioni violente e dell’intransigente lotta di classe. Nello scontro politico egli però non tollerava i compromessi. Così, quando nel capoluogo si formò una lista d’ordine per contrastare il PSI alle elezioni amministrative del 1920, Coppi, fedele alla linea sturziana avversa – come riportava «Il Popolo» – a «qualsiasi artificiosa coalizione», protestò e significativamente fece mantenere il silenzio al «Frignano», evitando di dare risalto all’accordo coi moderati. La sconfitta del blocco antisocialista a Modena, accompagnata dall’affermazione popolare in molti centri dell’Alto Modenese, finì di fatto per rafforzare la posizione del segretario, al punto che negli ultimi anni di vita del PPI egli divenne un autentico leader tra i dirigenti provinciali.
La riforma con cui Pio XI stabilì l’apoliticità dell’Azione cattolica ebbe conseguenze di rilievo nella realtà modenese: di fatto, si avviò un processo di clericalizzazione che investì rapidamente anche la stampa cattolica, un settore nel quale si assistette, parallelamente all’affermazione del movimento fascista, alla progressiva emarginazione dei laici dai posti di responsabilità. Tra il 1921 e il 1922 i tre settimanali «Il Frignano», «L’Operaio Cattolico» e «Il Popolo» (quest'ultimo peraltro finanziato direttamente dal vescovo) furono sostanzialmente ridotti ad un solo giornale – che mutava testata in base all’area di diffusione (rispettivamente montagna, Bassa e pianura) – e affidati ad un unico direttore, don Giuseppe Verri. Questi rimase in carica sino al 1925, quando, dopo un breve periodo di transizione, fu sostituito da don Luigi Boni, che avrebbe mantenuto la direzione fino alla sospensione delle pubblicazioni nel luglio del 1930.
Don Verri era un prete con una lunga esperienza in campo giovanile che aveva vissuto i primi fermenti della democrazia cristiana. Giunto a Modena nell'estate del 1919 per ricoprire la carica di segretario della giunta diocesana, all’impegno politico-sociale preferiva l’attività educativa: in quest’ottica «Il Frignano» prese ad occuparsi sempre più di religione, garantendo uno spazio progressivamente maggiore alle notizie legate alle iniziative di carattere assistenziale e formativo.
Il processo di riduzione dell’Azione cattolica ad organizzazione essenzialmente religiosa ebbe un chiaro riscontro sui tre giornali modenesi. Fino ai primi mesi del 1923 essi si presentarono genericamente come «settimanale cattolico» e figurarono come espressione di tutto il movimento cattolico, Partito popolare compreso; a partire dall’agosto del 1923 e fino alla fine dell’anno alla testata fu aggiunta la vistosa soprascritta «Azione Cattolica Italiana», a rendere esplicita la distinzione rispetto alla stampa di partito. Con la crisi del PPI, il giornale sceglieva pertanto di non schierarsi politicamente, onde evitare di «compromettere la compagine dei cattolici italiani».
Coppi, che con i suoi articoli aveva collaborato ampiamente con i tre settimanali anche sotto la direzione di don Verri, a partire da questo momento vi si distaccò sempre più nettamente. Per garantire visibilità al PPI modenese diede vita, sostenendola pressoché completamente con le sue forze, a «La Voce Popolare», organo del Partito popolare italiano per la provincia di Modena. Il primo numero uscì il 9 marzo del 1924, ma, a causa della censura fascista, il giornale fu costretto alla chiusura appena un anno dopo.
Sul finire del 1925 «Il Frignano» passò sotto la direzione di don Luigi Boni – fondatore della congregazione delle «Figlie del Sacratissimo Cuore» – e acquisì una posizione di pressoché completa indifferenza rispetto all’attualità politica. I tre giornali, scrisse infatti il sacerdote, sarebbero stati «al di sopra di ogni questione di parte».
Sotto la nuova direzione «Il Frignano» abbandonò, come conseguenza dell’instaurazione della dittatura fascista, ogni interesse per le questioni politico-sociali. Al foglio modenese non restò che condurre sterili battaglie contro il mal costume (esemplare la campagna contro la bestemmia) e promuovere iniziative di carattere religioso. Soltanto dopo la guerra Coppi poté riprendere l'opera di propaganda, attraverso la pubblicazione di una nuova versione del suo «Frignano».

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